La prima parola fuori dal linguaggio comune che Khaled Karri ha imparato è stata «scarpetta». Era la quinta settimana che si trovava in Italia e divorava voracemente il cibo in un ristorante. Dopo aver pucciato il pane nel sugo avanzato della pasta un cameriere senza troppi filtri glielo ha fatto notare: «Oh ma stai facendo la scarpetta!». Quel ricordo lo fa ancora ridere, mentre racconta la sua storia divisa tra la Siria e l’Europa. Forse non è solo una casualità se la prima parola imparata ha a che fare con il cibo. Khaled è un artista e regista siriano che utilizza ritratti astratti e arte culinaria per esprimere temi di sopravvivenza e identità.

Lo scorso 21 dicembre al Pigneto ha dato vita a un’esperienza sensoriale e visiva fuori dal comune. Al locale Kif Kif ha organizzato un «unusual screening» (un’altra proiezione ci sarà il prossimo 23 gennaio da Zalib a Trastevere), durante il quale ha proiettato un cortometraggio che ha realizzato quando era studente alla John Cabot university di Roma. A ciascun spettatore ha consegnato un foglio in mano, il manifesto del suo anno e mezzo di prigionia in Siria dove è stato anche torturato. «Vivevo in una scatola, non letteralmente una scatola, ma una stanza estremamente piccola. Quando vivevo dentro questa scatola, vivevo come un animale in gabbia. La mia vita era controllata da altre persone», si legge nel foglio.

Racconta che era a contatto con ottanta persone, che erano schiacciate, che non dormivano da giorni. E che alcuni detenuti impazzivano. «Sapevamo che quando queste persone non si calmavano, sarebbero morte entro i prossimi giorni. La loro anima se ne sarebbe andata, ma il loro corpo sarebbe rimasto nella scatola per altri quattro giorni. Poi, finalmente, qualcuno sarebbe venuto a scrivere un numero sulla loro fronte e a trascinarli via». Dentro quella cella, Karri ci è stato per tre mesi prima di essere poi stato trasferito. 

Non appena tutti hanno letto il documento Karri ha bendato gli occhi di ogni spettatore, li ha trascinati con forza dentro la stanza dove è stato proiettato il cortometraggio e li ha messi seduti seguendo il metodo utilizzato dalle guardie carcerarie siriane per riuscire a fare entrare così tante persone in un così piccolo spazio. Una volta seduti a ognuno ha lanciato un pezzo di pane e di patata lessa. Immersi seduti nel buio gli spettatori si sono tolti le bende e il cortometraggio sulla repressione siriana è iniziato. A fine proiezione Khaled Karri sorride e chiede scusa per i modi bruschi utilizzati. «Era per farvi capire cosa si prova nelle carceri siriani. Questo unusual screening aveva questo obiettivo».

La storia

Dopo gli studi scolastici si è iscritto al corso di Archeologia nell’università di Damasco, ma come ogni siriano doveva prestare servizio militare. Così nel 2010 entra nell’esercito regolare siriano, in quegli anni mangia cibo «schifoso», ma era quello servito. Così sperimenta la trasformazione a forma d’arte.

Nel marzo del 2011 in Siria esplode la guerra civile sulla scia delle manifestazioni di piazza represse con brutale violenza dalle forze godi Bashar al Assad. Decide di aiutare gli organizzatori a radunare le persone per le proteste. Li avvertiva anche dei punti critici, che conosceva bene in quanto soldato dell’esercito.

Nel 2013 un collega viene a scoprire la sua attività e lo denuncia scrivendo una relazione inviata poi ai servizi di sicurezza siriani. Da quel momento la vita di Karri viene stravolta. Viene rinchiuso per un anno e mezzo nel carcere di Sednaya, quello liberato dai ribelli jihadisti di Hayat Tahrir al Sham che ha preso il potere in Siria dopo un’offensiva . «Ci trovavamo in 80 persone dentro una cella 4x4. Ci sono tecniche per far sedere così tante persone in una stanza così piccola. Eravamo nudi, con la pelle e il fiato a contatto. Era inverno ma le pareti e il suolo era come se sudassero per quanti eravamo. In una mano avevamo un pezzo di pane e nell’altra un pezzo di patata lessa. Quello era il nostro cibo», racconta Khaled nei minimi dettagli. 

Alla mente ritornano gli orrori di quel luogo recentemente liberato. «Quando non dormi per tre giorni di fila la tua mente e il tuo corpo sono due entità diverse. Diventi matto, ho visto gente uscire fuori di testa, pisciare sui cadavere di chi moriva dentro la cella. I corpi venivano recuperati solo dopo giorni, era voluto. In una piccola cella un corpo morto non riesce a stare seduto, ma solo sdraiato. Occupa più spazio, fino a quando gli altri detenuti erano costretti a sedersi sopra».

La liberazione

Nel frattempo a Khaled non è stata garantita alcuna tutela legale. La sua famiglia non era a conoscenza della sua incarcerazione, il loro figlio era semplicemente sparito. Non avevano più notizie di lui. Un giorno, Karri fornisce gli accessi del suo account Facebook a un suo compagno di cella che stava per essere scarcerato. E così sul profilo di Khaled compare un post in cui racconta di essere in prigione nel carcere di Sednaya. I famiglia finalmente lo sanno. Pagano una sorta di cauzione da migliaia di dollari per liberarlo. Nella tragedia Karri è stato fortunato perché ha alle spalle una famiglia che poteva permettersi – vendendo gran parte dei suoi beni – di sborsare una cifra enorme per liberarlo negli anni in cui il paese era in profonda crisi economica e sociale. «In Siria la corruzione è a livelli altissimi, chiunque paga trova una soluzione ai suoi problemi», racconta Khaled. «C’è chi pagava duemila euro solo per avere un informazione su un parente detenuto. Duecento dollari per far arrivare un pacchetto di sigarette». E così nel 2014 Khaled esce dall’inferno di Sednaya.

I giorni in cui veniva picchiato e appeso per le braccia in cella sono alle spalle, ma deve tornare a prestare servizio militare. A quelli come lui il destino è sempre lo stesso: vengono mandati al fronte dopo la liberazione. Non appena lo viene a sapere decide di scappare. Paga un trafficante e arriva in Turchia, dopo mesi in cerca di lavoro non trova nulla e decide di raggiungere la sua famiglia che nel frattempo si era trasferita in Libia. «Sono stato un anno intero a Tripoli. Ho provato ad aprire un’attività, a cercare un lavoro. Impossibile, dovevo andarmene anche da lì». E così si imbarca verso l’Europa e dopo diversi giorni nel Mediterraneo centrale sbarca a Lampedusa. «Il mare di notte è il terrore», dice di quel viaggio. 

La prossima Siria

Qui in Italia ha una nuova vita. A Roma ottiene asilo politico si iscrive nella facoltà di Scienze politiche alla John Cabot University, trova un lavoro nella Croce Rossa e fonda Makan, un'organizzazione dedicata alle performance culinarie e alla lotta contro lo spreco alimentare. In arabo, «Makan» significa «luogo». L’obiettivo di Makan è «produrre cibo attraverso la comunità e creare comunità attraverso il cibo» dice Khaled.

Attraverso Makan Khaled e i suoi colleghi fanno catering, cultura e arte. Il suo piatto preferito sono le penne all’arrabbiata, racconta ridendo. Non è difficile capire il perché, riflette il suo stato d’animo per ciò che ha passato. Ma oggi il suo presente è in Italia, un giorno spera di tornare in Siria. Per ora è troppo presto. «Al Golani ha liberato la Siria, lo ringraziamo ma ora deve lasciare il posto», dice Karri. «Non possiamo rischiare di avere un altro come Bashar al Assad».

Ma i segnali non sono incoraggianti. In una recente intervista Abu Mohammed al Jolani ha detto che ci vorrebbero fino a quattro anni di tempo prima di organizzare le prime elezioni presidenziali libere dalla caduta del regime di Assad. Il rischio di una deriva autocratica è concreto.

«Ora è come se avessimo una felicità grigia. Immensa felicità ma solo perché Assad non c’è, per il resto è ancora tutto da vedere», dice rollando un’altra sigaretta.

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