«Ho provato il game dieci volte, tutte le volte sono stato respinto», racconta Mohamed, afghano di 25 anni che in questo momento vive in uno squat a Bihać, nel nord della Bosnia. «Le prime tre volte la polizia croata mi ha picchiato, spogliato, tolto il telefono e i soldi e poi mi hanno rimandato indietro. Il problema è stato la quarta, quando per riportarci in Bosnia ci hanno gettato nel fiume lungo la frontiera e io stavo annegando. Mi hanno salvato i miei amici» aggiunge, mentre cerca di accendere il fuoco nella sua stanza fredda. Il fiume di cui parla è il Sava che in alcuni punti del suo percorso è un confine naturale tra Bosnia e Croazia.
La paura di quel momento ancora si percepisce nei suoi occhi che tremano mentre racconta. Dopo ogni respingimento insieme ai suoi amici percorreva gli oltre 50 chilometri che dividono Velika Kladusa da Bihać, spesso senza vestiti. «Usano lo spray al peperoncino, ci fanno sdraiare a terra e poi ci picchiano con il manganello. Ci lasciano al freddo e al gelo per ore» racconta mentre cerca ancora di accendere la legna che una signora bosniaca ha regalato loro il giorno precedente facendo arrivare un camion pieno. I circa cento ragazzi che vivono in questo palazzo se la sono divisa e portata nelle diverse stanze. L’umidità però è troppa e la legna si è bagnata.
Laurea e baracche
Mohamed vive in una ex fabbrica nel centro della città di Bihać, lungo il fiume Una dove nei giorni festivi non è raro vedere le persone andare in canoa mentre i migranti lo usano per bere e lavarsi. I sei piani del palazzo sono fatiscenti e a tratti completamente distrutti, mentre si salgono le scale bisogna stare attenti a non scivolare e cadere di sotto mentre, una volta entrati nei corridoi, l’odore di urina è così forte che ti prende la gola.
Il fuoco Mohamed è riuscito ad accenderlo con del cartone e della plastica che ha creato una cappa di fumo dentro la stanza della quale però sembra non accorgersi. Per chiudere la grande finestra che affaccia sul fiume hanno usato coperte e teli di plastica che da un lato cercano di tenere fuori il freddo ma dall’altro, appunto, non fanno uscire il fumo del braciere. L’acqua che ha messo nel grande pentolone servirà per fare la doccia in una delle stanze accanto, protetto solo da due teli di cotone. «Io non volevo partire, in Afghanistan ero felice ma i talebani minacciavano tutta la mia famiglia e in particolare me, perché sono l’unico che ha fatto l’università» racconta mentre con il telefonino cerca la foto della pergamena di laurea in Scienze politiche all’Università di Jalalabad che un suo amico gli ha mandato. «La mia famiglia mi ha costretto a partire – aggiunge –, avevano paura per me e così ho iniziato un lungo viaggio e ora, dopo tre anni, sono molto stanco».
Racconta dell’Iran, del campo per migranti dove è stato e dove la polizia di frontiera non lo ha trattato male. Racconta di quella turca invece, nella città di Doğubeyazıt, dove è arrivato di notte insieme ad altre persone. «Siamo partiti da un punto a nord di Bazargan, una cittadina di frontiera iraniana, e abbiamo camminato tutta la notte. Con le luci dell’alba eravamo quasi nella cittadina dove ci aspettava una persona con un furgone per portarci a Istanbul e invece abbiamo visto dei grandi fuochi in aria, era la polizia che sparava dei razzi per illuminare il cielo, vederci meglio, arrestarci e rimandarci indietro» racconta mente l’acqua inizia a scaldarsi.
Nella stessa stanza ci sono altri 5 ragazzi, dormono allineati sopra a dei pannelli di polistirolo che li isolano dal terreno. Tutti arrivano dall’Afghanistan e tutti hanno fatto un viaggio simile, dove a ogni frontiera cammini per ore rischiando a ogni passo di essere rimandato indietro.
Il braccio spezzato
«Sono riuscito a scappare mentre altri sono stati fermati. La persona che doveva prenderci con il furgone, però, è scappata e io ho perso i soldi e il passaggio. In Afghanistan il mare non l’ho mai visto, la prima volta è stato sulle coste turche, quando mi hanno detto che dovevo salire su un gommone per arrivare a Lesbo. Ho avuto paura ma l’ho fatto. La guardia costiera turca ci ha respinti ma sono riuscito a passare il fiume Evros, più a nord, nelle settimane successive». La storia di Mohamed è quella di migliaia di persone che in questi anni hanno attraversato la frontiera cambiando strada ogni volta che l’hanno trovata sbarrata. Iran, Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia: secondo un calcolo approssimativo 6.360 chilometri ma non si tiene conto delle deviazioni, dei respingimenti e, soprattutto, delle dieci volte in cui Mohamed ha provato il game, la lotteria, il tragitto che da Bihać lo porterebbe a Trieste e da lì verso l’Europa del nord.
Il suo obiettivo, come quello di tanti altri, è la Germania, che garantisce un sistema di accoglienza migliore rispetto all’Italia o altri paesi. Alcuni però preferiscono l’Italia, in particolare il settentrione, dove sperano di trovare lavoro. Tra loro c’è Awad. Ha appena 18 anni ed è partito quando ne aveva 14. «La mia famiglia è povera, quando ho finito le scuole medie mi hanno fatto partire per l’Iran, ho raggiunto uno zio a Jiroft: lui lavora le pietre e io speravo di poter lavorare con lui ma c’era poco lavoro e così sono partito verso la Turchia e ora eccomi qui, con un braccio che non posso quasi più usare» racconta mentre anche lui prova a scaldarsi attorno al fuoco. Nonostante il termometro indichi zero gradi si toglie la giacca, il maglione e mostra le due braccia: il destro è completamente girato dal gomito in giù, come se si fosse calcificato male dopo una brutta frattura.
«La polizia croata mi ha fatto questo un anno fa. Ho provato diverse volte il game ma sono sempre stato respinto ma sono sicuro che prima o poi riuscirò ad arrivare in Italia e a lavorare per aiutare la mia famiglia», dice mentre continua a mostrare il braccio martoriato.
Acqua sporca
In Italia vogliono venire anche i tanti ragazzi provenienti dal Pakistan. Milano è la meta finale dove hanno parenti e amici che potrebbero ospitarli e trovargli un lavoro. Hamza viene da un piccolo villaggio lungo il confine con l’Afghanistan, è pashtun. La sua famiglia non ha mai avuto simpatie per i talebani e per il gruppo Tehreek-e-Taliban Pakistan, legati ad Al Qaeda. Hamza dopo le scuole medie è stato fatto partire dai genitori e dopo anni si è ritrovato nel campo di Lipa, andato a fuoco lo scorso 23 dicembre con più di mille persone che si sono ritrovate all’improvviso al gelo in mezzo alla neve. Il campo, gestito dall’Organizzazione per le migrazioni dell’Onu (Oim), è stato aperto prima dell’estate per essere provvisorio ma a oggi nessuno ha trovato una soluzione. Bihać, la città più vicina, è a trenta chilometri. «Ci hanno evacuato poco prima che prendesse fuoco tutto, la vita nel campo era difficile perché è molto isolato e non potevamo andare in città per ritirare i soldi che ci mandano le famiglie o a comprare qualcosa, però avevamo un tetto» racconta mentre lavora per improvvisare una baracca con quel che resta del rogo.
La polizia non permette di entrare, per farlo bisogna intrufolarsi dall’ingresso secondario sperando di non essere visti. «Non abbiamo elettricità e acqua, come pensi che possiamo vivere in queste condizioni?», e aggiunge: «ci dobbiamo lavare con l’unica fonte d’acqua che c’è». Il campo è in salita e uscendo dalla parte bassa il terreno prosegue in discesa fino a una piccola casupola in cemento da dove esce un tubo di scarico con dell’acqua corrente. “Water is not for drink” recita un cartello messo proprio sopra lo scarico. Due ragazzi si stanno preparando per la doccia, sono in mutande e battono i denti. Uno inizia a bagnarsi prendendo l’acqua con il fondo di una bottiglia di plastica mentre l’altro gli passa il bagnoschiuma. Il corpo in qualche modo si abitua al freddo o forse si rassegna. Hamza torna a costruire la sua baracca. L’inverno sarà lungo. Per provare di nuovo il game dovranno aspettare che passi.
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