- A qualsiasi livello il calcio ama gli autocrati perché è a sua volta un sistema autocratico, refrattario ai controlli e all’accountability. Il rapporto con leader autoritari e regimi liberticidi non è mai stato un problema.
- La risoluzione emessa giovedì dal parlamento europeo sulla situazione dei diritti in Qatar certifica la politicità del calcio, ma chi lo governa continua a negare questo stato delle cose.
- La mancata esibizione della fascia di capitano è stata una grande occasione persa, l’irripetibile opportunità di mostrare al mondo l’ottusità del potere calcistico nella sua complicità coi regimi non democratici.
La risoluzione emanata dal parlamento europeo giovedì, in materia di situazione dei diritti in Qatar a margine della celebrazione dei mondiali, certifica una volta di più la rilevanza politica del calcio. Una rilevanza scontata, ma che continua a essere inaccettabile per chi lo governa a qualsiasi livello.
Agli occhi di costoro la politica non riguarda i diritti e la vita delle persone, ma piuttosto è qualcosa di cerimoniale e cerimonioso. Fatto di meeting, strette di mano e photo opportunity che servono innanzitutto come strumento di reciproca legittimazione: i leader di regime politico riconoscono i leader di regime calcistico e viceversa, in un gioco di specchi che riflette l’immagine all’infinito e taglia fuori il mondo reale.
Del resto, l’irrealtà è una fra le cifre principali per chi governa il calcio. Che è un mondo tutto a sé, dove esistono ben 211 nazioni riconosciute dalla Fifa quando quelle riconosciute dall’Onu sono 193. Un dato che una volta di più dimostra quanto il calcio sia politica. Eppure deve rimanerne fuori.
Compartimenti (e comportamenti) stagni
È uno strano mondo quello che si vede dai piani alti delle istituzioni calcistiche internazionali. Costituito da compartimenti (e comportamenti) stagni, da rapporti di forza dal timbro ancien régime dove i protagonisti di campo vengono percepiti come un terzo stato che va tagliato sistematicamente fuori dalle scelte cruciali. Persino dal diritto di manifestare qualsivoglia atto o intenzione che esuli dalla loro dimensione di campo.
Eppure il calcio sono loro, dunque più di qualsiasi altro soggetto avrebbero diritto di esprimersi su questioni che toccano il calcio pur non essendo di stretta pertinenza calcistica. Ma si pretende che si comportino come polli in batteria. E se provano a ribellarsi, ecco che li si minaccia di colpire con l’esclusione dalla scena. Come se la scena potesse essere tenuta in piedi senza di loro.
Qui sta il punto: che per chi domina e decide nel mondo del calcio, il vasto terzo stato composto da calciatori, direttori di gara e staff tecnici deve soltanto pensare alle cose di campo. Starsene entro quel perimetro come fosse il suo carapace e fare tutto quello che serve a tener mansueto il quarto stato, costituito a sua volta dal vasto parco buoi globale fatto di tifosi clientificati, sollecitati a compiere nulla più che comportamenti di spesa o a fare da tappezzeria negli stadi dovendo pure pagare per prestare un servizio di natura estetica per il quale invece dovrebbero essere pagati.
Un mondo statico
Ne sortisce la fotografia di un mondo statico, governato col piglio di chi non conosce il principio di responsabilità. Refrattario a un esercizio del potere che vada oltre un mix tra comando e paternalismo. E quanto alle campagne a sfondo sociale, sono scelte sempre e accuratamente scelte in modo che vadano contro nessuno.
Invece la democrazia, i diritti umani e quelli civili, sono temi troppo divisivi. A rischio di turbare la suscettibilità dei dittatori e degli autocrati immortalati nelle photo opportunity. E quando mai il mondo del calcio è andato contro gli autocrati? Sarebbe contro natura, una negazione di sé medesimo.
Perché il calcio, a qualsiasi livello, si porta l’autocrazia nel dna. Lo fa in virtù di un sistema di potere nel quale gli eletti alle cariche apicali le avvertono sin dall’indomani come una dotazione personale inalienabile. E a partire da questa mentalità prendono a governare la macchina rinsaldando il rapporto con le autocrazie periferiche, allungando ai ras locali tramite i finanziamenti per i cosiddetti “programmi di sviluppo” le risorse che servono a questi per perpetuare i loro meccanismi di dominio sul piano locale e senza che sia fatto il minimo controllo sulla loro destinazione.
Ma soprattutto c’è che gli autocrati del calcio amano gli autocrati veri, sono il loro modello di governo dell’organizzazione. Li riveriscono e blandiscono, se serve mettono a loro disposizione posti negli organi esecutivi da occupare direttamente o tramite persone di stretta fiducia. E ancor più sono disposti a assegnare loro l’organizzazione delle grandi manifestazioni sportive, che sono strumenti così preziosi per acquisire legittimazione politica e attenzione mediatica sulla scena internazionale.
Del resto, costoro possono manovrare risorse economiche che i governi democratici, obbligati a ben altri percorsi di accountability dalle istituzioni di controllo e dalle opinioni pubbliche interne, non sono in grado di avvicinare. Sarebbe anche il caso di tenere in considerazione questa variabile, quando si tratta di valutare le candidature per ospitare una grande manifestazione sportiva.
E invece no, meglio assecondare regimi e dittatori in obbedienza al principio che l’unica dottrina politica declinata dal mondo del calcio (e dal mondo dello sport, in generale) è la realpolitik. A meno che non ci sia da contestare l’ingerenza dei governi nella gestione delle federazioni nazionali. E pazienza se l’intervento dei governi avviene per stroncare fenomeni di corruzione o simili, perché c’è da tutelare il sacro principio di autonomia del calcio come sfera istituzionale, indipendentemente dallo specifico dei fatti.
L’occasione persa
In verità, è bastata la minaccia di un cartellino giallo per stroncare nel terzo stato del calcio la pretesa di adottare un’azione nulla più che simbolica: l’esposizione di un messaggio di libertà (“1 Love”) impresso sulla fascia di capitano. Sette federazioni nazionali europee sono state ricondotte all’ordine così, senza che fosse necessario passare alle maniere forti. E senza che i calciatori si ribellassero più di tanto.
Una grande occasione persa, come ha rimarcato Adam Crafton sul sito The Athletic: pensate quale impatto, quale esibizione di ottusa arroganza, se prima di ogni partita i capitani di queste nazionali fossero stati ammoniti in mondovisione. Sarebbe stata evidenziata la nudità del potere. Nulla di tutto ciò. Meglio mettere i calciatori al riparo dal rischio disciplinare lungo il cammino del torneo. In fondo, ci si può sempre commuovere per le lacrime dei tifosi iraniani durante l’esecuzione dell’inno nazionale.
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