Quando c’è un problema a una campagna elettorale presidenziale ci si rivolge a uno stratega che possa ribaltare la situazione e trovare la chiave per risollevare le sorti di un candidato in difficoltà. Nel caso di James Carville, già al comando della campagna di Bill Clinton nel 1992 dove riuscì nell’impresa di sconfiggere un presidente in carica, la soluzione è quella di scaricare Joe Biden perché il problema dell’età è diventato insormontabile.

Anche se questo dovesse portare a una convention aperta, ipotesi temutissima dai maggiorenti del partito perché ricorda un episodio famigerato, quello del 1968, dove il meeting era stato interrotto dai manifestanti contro la guerra del Vietnam e alla fine la questione era stata risolta con la nomina dell’incolore vicepresidente in carica Hubert Humphrey, che sarebbe stato sconfitto da Richard Nixon.

Per Carville tutto questo però è un rischio che si può accettare: interpellato dalla Cnn e da varie altre testate, ha detto che, anche se la convention «sarà dolorosa» e i sentimenti di qualcuno «verranno feriti» alla fine si dovrebbe trovare una sintesi su un candidato condiviso che avrà molte più chance di battere Donald Trump di un presidente con molti altri difetti rispetto all’età.

Peraltro, secondo lo stratega che quest’anno compirà ottant’anni, questo non sarebbe nemmeno il problema maggiore: a suo avviso, Biden avrebbe una ristretta cerchia di familiari su cui si appoggia, tenendo in scarso conto le opinioni di altri advisor ufficiali della Casa Bianca. Ragiona sul fatto che si tratterebbe di «dipendenti» e non di veri e propri «consiglieri». Quindi, in estrema sintesi, dipende dai suoi cari. E la scelta deve necessariamente comportare dei rischi. E fa un esempio che riguarda Martin Luther King, che aveva una «bellissima chiesa» da gestire, prima di «iniziare il movimento per i diritti civili».

Cambiamento

Nella sua analisi però il pericolo finale è rappresentato dal distacco della realtà dei dem, che tuttora, a maggioranza, vorrebbero continuare con Biden (secondo i sondaggi solo il 41 per cento andrebbe a novembre con un altro candidato). Per lui invece, la previsione è che alla fine si deciderà per un cambio in corsa per una non meglio specificata ragione. Si può ipotizzare che la recente sentenza della Corte Suprema sull’immunità che spetterebbe al presidente nell’esercizio delle sue funzioni rafforza la sensazione di pericolo che deriverebbe da un secondo mandato di Donald Trump. Nel contempo però proprio gli americani chiedono cambiamento, il 72 per cento di loro, secondo una rilevazione citata proprio da Carville. A quel punto però bisogna far sì che questo cambio non venga fornito dal mondo Maga e dallo stesso tycoon.

Carville nella sua analisi tagliente non è ascoltato solo perché è un personaggio con molte vittorie elettorali all’attivo per i candidati da lui seguiti, ma anche perché è uno dei pochissimi centristi a offrire una visione così critica di Biden, dove altri con le sue idee si sono arroccati in difesa dell’inquilino della Casa Bianca.

Quindi offre, consapevolmente o meno, una via d’uscita che non suoni come un eccessivo ammiccamento al mondo progressista che da mesi critica il presidente per il suo sostegno dato al governo israeliano nel suo conflitto contro Hamas nella Striscia di Gaza. Posizione che in quel caso sarebbe fatale in un altro modo, perché solo dall’unione di centristi e di radicali di sinistra può uscire la coalizione vincente contro i trumpiani.

Governatori

La carta che Carville offre quindi è quella dei due predecessori dem Bill Clinton e Barack Obama che dovrebbero offrire al loro successore il fatidico consiglio di farsi da parte per il bene della nazione, nominando di fatto un candidato per la successione, che per Carville, che pure preferirebbe un «governatore» come Gavin Newsom della California o Gretchen Whitmer del Michigan, potrebbe pure essere l’impopolare vicepresidente Kamala Harris, che a quel punto potrebbe dimostrare il suo profilo politico in prima persona e smontare gli attacchi del tycoon contro il suo successore-avversario, da mesi dipinto come un vecchio rimbambito corrotto, percezione corroborata dalla performance disastrosa del presidente.

Anche se la fama di guastafeste di Carville, unitamente alla sua fedeltà al clintonismo, sfumatura di progressismo oggi percepita come troppo debole e annacquata, potrebbe portare Biden a fare spallucce e ad andare avanti. Solo che l’impresa appare quantomai improba: deve conquistare i voti di chi pensa che non abbia le capacità mentali di durare quattro anni alla Casa Bianca, ancor più difficile del convincimento di indecisi e repubblicani moderati disgustati dal trumpismo.

Il consiglio di Carville quindi assume i tratti della profezia inascoltata che probabilmente verrà recuperata solo dopo il voto, come monito delle cose che si potevano cambiare e che invece testardamente, sono state mantenute tali.

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