Dalla ricostruzione fatta da alcuni suoi amici nel Nord Kivu, sembra che avesse voluto lui recarsi personalmente sul luogo, molto distante dalla capitale, al fine di comprendere meglio la situazione in cui versa la regione in vista di una organizzazione della distribuzione degli aiuti.
- La missione che è stata fatale all’ambasciatore Attansio era a bordo di una vettura non blindata del Word Food Program - in un convoglio composta da macchine della Monusco (la missione di pace dell’ONU), del WFP e dell’esercito congole.
- La Monusco conta oltre 20.000 uomini sul terreno preposti a garantire sicurezza alla popolazione e vanta una attrezzatura di primordine, capace a fronteggiare eserciti organizzati. Come è possibile, quindi, che da anni non faccia niente per fermare le stragi?
- Da molti sono accusati di assistere inermi ai massacri, da altri addirittura di parteciparvi: i caschi blu in Congo sono ormai da anni sotto la pressione di ampli settori della società civile.
L’uccisione dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio in Congo e del carabiniere Vittorio Iacovacci, nei pressi di Goma, estremo lembo sud della regione del Kivu Settentrionale, a un passo dal Rwanda, è una tragedia nella tragedia.
Attanasio aveva una moglie, tre figlie, una di 5 anni e due gemelline di 3, ed era molto impegnato nel tentativo di ricostruire un dialogo tra Repubblica Democratica del Congo e Italia che era diventato difficile negli ultimi anni.
La sua morte aggiunge anche un preoccupante fattore di instabilità e tensione in un’area da decenni in pieno caos a causa di conflitti che hanno prodotto infinite stragi, esodi di massa e precipitato tutto l’est del Paese in una situazione di drammatica emergenza umanitaria: solo nel 2020, i morti tra i civili hanno superato la cifra di 2000 mentre gli sfollati nell’arco dei 12 mesi, ammontano a circa 100mila. In totale circa cinque milioni di sfollati interni e oltre 500.000 quelli fuori dai confini.
È qui, inoltre, che si è diffuso il virus dell’Ebola (dall’agosto 2018 ha colpito 3420 persone e ucciso oltre 2400), ufficialmente debellato nel secondo semestre del 2020 ma pericolosamente riaffacciatosi agli inizi di febbraio.
Il tutto nel più totale disinteresse di tutti gli attori a cominciare dal governo centrale fino alla comunità internazionale.
Il ruolo di Attanasio
Il giovane diplomatico, giunto a Kinshasa nel 2017 per rilanciare una sede rimasta vacante per nove mesi dal gennaio al settembre di quell’anno, sentiva la responsabilità di favorire una nuova narrazione del Congo e dell’Africa in genere, e il richiamo insito nel ruolo di ambasciatore a promuovere lo scambio pacifico tra Stati e culture.
Incontrato in un suo passaggio a Roma e incuriosito dall’inchiesta di Domani sullo sfruttamento di individui e ambiente per l’estrazione del cobalto nell’ex Katanga, aveva più volte manifestato la volontà di ospitare giornalisti e facilitare la conoscenza del grande paese centroafricano in Italia. Luca Attanasio ha iniziato la carriera diplomatica da giovanissimo: a 33 anni fu nominato vice console a Casablanca, Marocco e, restata inevasa la nomina del console, fu lui a prendere l’incarico. Una designazione in Nigeria e la chiamata a Kinshasa a 40 anni.
“Essere ambasciatore – ebbe a dire mentre gli veniva consegnato il Premio ‘Nassirya per la Pace’ dalla Associazione salernitana Elaia lo scorso ottobre – non è un lavoro ma una missione, a volte anche pericolosa. Ma abbiamo il dovere di dare l’esempio”. Ed è sicuramente con questo spirito che è entrato in macchina nella mattinata di lunedì 22 febbraio per recarsi nel Nord Kivu.
La missione Onu e i misteri
La sua ultima, tragica missione, per portare aiuti alla popolazione, l’ha fatta a bordo di una vettura non blindata del Word Food Program - in un convoglio composta da macchine della Monusco (la missione di pace dell’ONU), del WFP e dell’esercito congolese - proprio nell’area teatro di scontri e tra le più calde al mondo.
Dalla ricostruzione fatta da alcuni suoi amici nel Nord Kivu, sembra che avesse voluto lui recarsi personalmente sul luogo, molto distante dalla capitale, al fine di comprendere meglio la situazione in cui versa la regione in vista di una organizzazione della distribuzione degli aiuti. Lo scopo dell’agguato è veramente avvolto nella nebbia.
Al momento prevale l’ipotesi di un tentato rapimento, anche se restano perplessità riguardo alla possibilità che sia stato premeditato, organizzato ed eseguito un sequestro di un ambasciatore: un’azione gravissima che corrisponde a un atto di guerra verso uno stato.
Qualcuno avanza la tesi di un tentativo di rapina finito male con l’unica guardia del copro a bordo della vettura che avrebbe sparato e gli esecutori che avrebbero risposto al fuoco uccidendo carabiniere, autista e ambasciatore. In ogni caso, le ipotesi, data anche la difficoltà a reperire notizie certe in un’are in cui regna l’anarchia, sono tutte embrionali.
La zona orientale della Repubblica Democratica del Congo è passata senza soluzione di continuità dalle guerre dei Grandi Laghi e i massacri dei primi anni ’90, all’attuale situazione di conflitto permanente. Le tre province dell’Ituri, del Kivu del Nord e del Sud, si trovano a vivere in uno stato di guerra senza che il governo centrale provi a porvi rimedio. E se prima si incolpavano gli interessi della dinastia Kabila al governo del Paese per 22 anni (Laurent-Désiré Kabila dal 1997 al 2001 e il figlio Jospeh dal 2001 al 2019, ndr) - quali fattori alla base di un mancato intervento di Kinshasa, ora il dito è puntato sul nuovo presidente Félix Tshisekedi e le sue promesse eluse di riportare pace.
Di recente, l’Unhcr, allarmata dalla recrudescenza degli scontri ha lanciato un allarme globale “per le continue atrocità commesse da gruppi armati nella Repubblica Democratica del Congo orientale, divenute parte di una strategia volta sistematicamente a turbare la vita dei civili, instillare paure e generare caos”.
Il 2020 è stato un annus horribilis che, nonostante la diffusione della pandemia, ha visto aumentare il numero di morti, feriti e sfollati. Ma il 2021 non lascia adito a grandi speranze, visto che massacri, saccheggi stupri di massa e rapimenti hanno continuato a verificarsi anche negli ultimi giorni. Come riporta Nigrizia, tra il 5 febbraio e l’8 sono stati massacrate una ventina di persone nella zona di Beni e a centinaia hanno preso la via della fuga.
Le milizie
In tutta l’area che si trova a ridosso del Rwanda, il Burundi e l’Uganda, ricchissima di materie prime e di minerali di altissimo valore, sono in azione tra i 140 e i 160 gruppi armati. Il predominio territoriale significa ricchezze smisurate e accordi con multinazionali da fatturati miliardari. Una guerra che continua ad alimentari commerci e, proprio, per questo, non deve essere interrotta.
I gruppi armati hanno il totale controlla di intere regioni e impongono misure come fossero lo Stato: a novembre 2020, come denuncia l’Unhcr, gruppi armati hanno introdotto il pagamento di tasse illegali per quanti desiderano accedere alle proprie fattorie nei propri villaggi di origine, nel territorio di Rutshuru. In un’area già ridotta allo stremo, significa fame e morte.
L’obiettivo delle guerre in Ituri, nel Nord e nel Sud del Kivu, come riportano molto osservatori, è sempre lo stesso: la ricerca e l’accaparramento di terre di popolazioni indigene da parte di gruppi stranieri provenienti da Uganda, Ruanda e Burundi. Uccidono, danno alle fiamme persone nei villaggi per costringerli a fuggire altrove e occupare la loro terra. Il pericolo, ormai per molti osservatori già realtà, è la ‘balcanizzazione’ del Congo, una sorta di spartizione in mille staterelli legati a interessi economici e all’estrazione dei minerali preziosi. La solita maledizione delle risorse che, specie nel Congo straricco di oro, diamanti, caucciù, coltan, cobalto etc, ti porta a pensare, meglio restare poveri.
La forza di pace non basta
Sotto accusa, in questa situazione di assoluto caos omicida, la forza di pace dell’Onu. La Monusco, infatti, conta oltre 20.000 uomini sul terreno preposti a garantire sicurezza alla popolazione e vanta una attrezzatura di primordine, capace a fronteggiare eserciti organizzati. Come è possibile, quindi, che da anni si perpetuano stragi, talvolta anche all’arma bianca, senza che tantissimi effettivi, armati fino ai denti, non riescano a fare nulla?
Da molti sono accusati di assistere inermi ai massacri, da altri addirittura di parteciparvi. I caschi blu in Congo sono ormai da anni sotto la pressione di ampli settori della società civile che non solo denunciano la totale inefficacia, ma arrivano a chiederne l’immediata chiusura quale misura per ristabilire un minimo di ordine. Non mancano, poi, le critiche all’esercito regolare accusato di corruzione, collusione e connivenza con i gruppi armati.
Su tutto, poi, regna sovrana la povertà estrema. L’insicurezza alimentare sta toccando livelli mai raggiunti in precedenza: secondo l’Onu metà della popolazione locale – un quinto sono bambini – è ad alto rischio nei prossimi sei mesi se gli aiuti non saranno immediati.
Ed era proprio a questa gente che voleva dedicare la sua attenzione Luca Attanasio. La sua missione, molto al di là di quella di un semplice ambasciatore, era stare in mezzo alla gente, portare cambiamenti, mischiarsi con la popolazione e trarne conoscenza per favorire dialogo e sviluppo. Purtroppo, è stata brutalmente interrotta da mani violente
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