La campagna elettorale per la Casa Bianca è una fiera dell’assurdo, un teatro delle finzioni. E l’assurdo si fa indifferentismo: che vinca Donald Trump o Kamala Harris poco importa poiché la Casa Bianca sta dalla parte di Israele comunque
La campagna elettorale per la Casa Bianca è una fiera dell’assurdo, un teatro delle finzioni, un amusement per i trumpiani che gabbano gli elettori. Che gabbano, soprattutto, la sinistra “vera” dentro e fuori degli States. E l’assurdo si fa indifferentismo: che vinca Donald Trump o Kamala Harris poco importa poiché la Casa Bianca sta dalla parte di Israele comunque.
Trump con Netanyahu
Fuori degli States, questa logica riluce di anti-americanismo. E, quindi, Harris e Trump “pari son”. Negli States, il risvolto di questo lack of trust si materializzerà probabilmente nella scelta di molti arabo-americani democratici di astenersi dal voto, con l’illusione di non votare per Trump. E “gli sciagurati” potrebbero avere una grossa delusione. Beffati, avranno in cambio quel che più temono.
Non votando per Harris non fermeranno il massacro in corso a Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Lo agevoleranno.
Trump è stato sempre molto chiaro: sta completamente dalla parte del governo di Israele. Ha sempre parlato senza lingua biforcuta – a ragion del vero, questo vale per tutte le questioni incendiarie da lui sostenute, come l’odio per gli immigrati, il disprezzo per gli europei, la misoginia, il machismo (ricordiamo quando nel corso della campagna del 2016, disse che la sua pratica con le donne era «grab the pussy»?). Nel corso del suo primo mandato come presidente, Trump ha preso una decisione epocale piena di significato: ha spostato la sede dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, un gesto che intendeva gettare al macero la politica dei due popoli e due stati.
Ora che le armi e la distruzione hanno reso quella politica una chimera, la posizione di Trump come “protettore” di Israele si manifesta col sostegno pieno alla guerra di religione di Netanyahu. Al quale Trump ha sempre suggerito di «fare ciò che deve», di «andare avanti» con la pulizia etnica della terra del popolo di Dio. E Netanyahu ha ricambiato diventando uno dei capi di governo piú impegnati nella sua rielezione (l’altro grande supporter è Vladimir Putin).
Vi è un’altro particolare che non puó sfuggire agli arabo-americani democratici che pensano di astenersi dal votare Harris: fin alle prime mosse della sua presidenza, Trump ha perseguito una dura politica anti-islamica. Del resto, l’islamofobia è stata la carta di identità dell’internazionale dell’estrema destra. Giorgia Meloni gridava nei suoi comizi (e lo scrisse nel programma elettorale del suo partito nel 2022) di difendere la “tradizione giudeo-cristiana” contro quella “islamica”. Intervenendo al congresso dei camerati spagnoli di Vox alcuni anni fa, ha urlato le stesse parole usate pacatamente da Trump.
Oggi Meloni sussurra l’islamofobia, evidentemente perché l’Italia ha una dipendenza energetica strutturale dall’estero e i dirigenti dell’Eni la seguono come un’ombra nei suoi viaggi nei paesi produttori di petrolio, che sono per lo più di religione islamica.
Il potere imperiale di cui godono gli Stati Uniti consente a Trump di essere meno diplomatico, e quando può ridicolizza il popolo di Allah. Il primo decreto presidenziale che firmò nel marzo 2017 fu contro gli ingressi di mussulmani (anche per turismo) ovvero dei cittadini di Iran, Siria, Sudan, Yemen, Somalia e Libia. La sua prima prova di forza contro la magistratura, l’inizio delle ostilità contro la divisione dei poteri, fu all’insegna della islamofobia.
Le preoccupazioni di Harris
Prevedendo gli esiti del non-voto, cento leader arabi dell’Arizona hanno rilasciato alcuni giorni fa una dichiarazione che invita i cittadini di origine araba a leggere bene le dichiarazioni dei candidati.
Il 13 ottobre scorso, si dice nel documento, lo stesso giorno in cui l’amministrazione Biden minacciò di riconsiderare il sostegno militare se Israele non avesse migliorato le condizioni umanitarie a Gaza e ridotto le vittime civili nei successivi 30 giorni, Harris ha twittato: «Israele deve urgentemente fare di più per facilitare il flusso di aiuti a chi ne ha bisogno. I civili devono essere protetti e avere accesso a cibo, acqua e medicine. Il diritto umanitario internazionale deve essere rispettato».
E nel suo comizio in Michigan, davanti a una platea numerosa di arabo-americani, Harris ha usato espressioni forti di empatia per le sofferenze del popolo palestinese e libanese; e si è impegnata a fare «tutto ciò che è in suo potere» in qualità di Presidente «per porre fine alla guerra a Gaza» e per «un futuro di sicurezza e dignità per tutti i popoli della regione».
Il documento dei leader arabo-americani suggerisce di ragionare politicamente: «Le decisioni di Harris come presidente saranno influenzate dalla più ampia coalizione del Partito democratico, che comprende una forza crescente che spinge per i diritti umani dei palestinesi». Chissà se il pensare politico vincerà sull’assurdo.
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