L'universo peronista è assai screditato, soprattutto nelle zone urbane. L’estrema destra di Javier Milei ha fatto il pieno in città come Cordoba e Mendoza, mentre storicamente anche a Buenos Aires la classe media produttiva non vota per i peronisti. Tutto si gioca come sempre nella grande provincia della capitale, dove è quasi impossibile sottrarre il potere ai peronisti. Se Milei dovesse sfondare anche qui, si chiuderebbe un'epoca
La signora alla cassa conta con calma il pacco di banconote ricevute, ogni cinque ne fa un mazzetto e lo infila sotto una spillatrice. Poi conta i mazzetti e dà lo scontrino. Ha ricevuto l'equivalente di 20 euro, che in Argentina al cambio parallelo sono 20.000 pesos, cioè parecchi soldi. Ma i tagli sono piccoli e ci vuol tempo, e pazienza per entrambi mentre la fila si allunga. Così vanno le cose nella Buenos Aires del 2023. Dove la moneta nazionale si è frantumata di nuovo, come 20 anni fa e poi 40 e poi 60 e prima chi se lo ricorda più. Come in quei giochi dove ogni tanto si torna alla casella di partenza, Argentina è sinonimo di crisi economica e bancarotta alle porte. Un salto nel passato, perché i pacchi di cartamoneta in America Latina non si vedevano da tempo, con l'unica eccezione del Venezuela, distrutto dal chavismo.
Un solo argomento muove dunque le elezioni presidenziali di oggi in Argentina: la crisi economica e l’inflazione che sta distruggendo il tenore di vita di buona parte della popolazione: l'aumento dei prezzi è fuori controllo e ha superato il 120 per cento all'anno. Effetto del fallimento totale degli ultimi due governi (l'uscente peronista Alberto Fernandez – troppo impopolare per ricandidarsi - e il precedente liberale Mauricio Macri) più l'eredità di politiche populiste che risalgono all'uscita dall'ultima grande crisi, quella del 2002-2003. I dati ufficiali parlano del 40 per cento degli argentini sotto la soglia di povertà. Il quadro politico uscito dalle primarie dello scorso agosto ha soltanto accelerato la corsa ad accaparrarsi dollari, perché comunque vada a finire, si pensa, il peso può solo continuare a svalutarsi.
I sondaggi degli ultimi giorni non hanno mostrato grandi oscillazioni, con i tre candidati principali tutti attorno al 30 per cento delle intenzioni di voto. In testa ci sarebbe però sempre l'outsider di estrema destra Javier Milei, qui definito il libertario, che dovrebbe andare al ballottaggio con il peronista Sergio Massa, rappresentante del governo uscente. Ma non lontana c'è anche la liberale Patricia Bullrich, che raccoglie i voti del centrodestra moderato. Milei ce la farebbe subito se arrivasse al 40 per cento dei voti con un vantaggio di dieci punti sul secondo collocato, secondo il sistema elettorale argentino. Un istituto di sondaggi sostiene che potrebbe essere vicino e lui, el loco Milei, l'ha urlato ai suoi come un ossesso nel comizio finale: «Chiudiamola al primo turno...» e giù una serie di volgarità da curva.
L’inconsistenza del fronte anti-Milei
Il grande vantaggio di Milei, oltre all'inflazione al galoppo, è l'inconsistenza dei suoi avversari: biografie consumate, volti visti mille volte, cambi di bandiera. Sergio Massa è uomo peronista per tutte le stagioni e attualmente è ministro dell'economia: quando è arrivato su quella poltrona il dollaro valeva 290 pesos, adesso sta a 1.000. All'ultimo dibattito tv non ha potuto che chiedere scusa, prima di spiegare cosa farà per cambiare le cose. «Solo in Argentina accadono cose indecifrabili – ha ironizzato Pepé Mujica, l'ex presidente dell'Uruguay, grande vecchio della sinistra – Come può candidarsi a guidare il paese il responsabile dell'inflazione? La risposta è una sola: gli argentini vivono ancora nella mitologia del peronismo». Ed è vero: comunque vadano le cose, il 30-40 per cento dei voti argentini è garantito, e poco importa se il peronista di turno è di destra o di sinistra. La campagna elettorale dell'ultim'ora contro il “pericolo Milei” è emblematica: Massa ha tappezzato Buenos Aires con manifesti dove si mostra l'attuale prezzo urbano del treno (56,23 pesos) e come il valore aumenterebbe sotto le ipotetiche gestioni di Milei o di Bullrich: 1000 pesos. Il biglietto infatti gode di un sussidio pubblico del 95 per cento (equivale a 6 centesimi di euro) e le ferrovie argentine sono sull'orlo del fallimento, oltre a essere il primo datore di lavoro del paese per numero di addetti. Per garantire questo e altri sussidi - anche il calcio in tv è gratis perché lo paga lo stato - il governo stampa soldi e alimenta inflazione. Persino un vecchio guerrigliero marxista del secolo scorso come Mujica non ci crede più. Chi guadagna alla fine? Solo i turisti europei che si lanciano su bistecconi da mezzo chilo a 3 euro, o quelli brasiliani che svaligiano i negozi di chincaglierie e si portano a casa casse di Malbec, il pregiato vino argentino che a loro costa come una birretta. Fanno festa anche gli argentini che guadagnano in dollari o euro, li vanno a prendere cash nelle banche in Uruguay e se li portano a casa prima nascondendoli in macchina e poi nel proverbiale materasso. I soldi che mancano nel circuito finanziario (banche e altro) sono calcolati dalla banca centrale in 270 miliardi di dollari. Sembra impossibile ma è vero: sono tutti nascosti nelle case, in biglietti verdi, e li si cambia poco alla volta al mercato nero per pagare tutto.
La cura shock dell'iperliberista Milei punta a eliminare il peso e dollarizzare l'economia. Fattibile o meno, dopo un'eventuale sua vittoria l'aspettativa è di un ulteriore crollo della moneta. Il governo uscente potrebbe essere costretto a svalutare anche il cambio ufficiale che è bloccato a 350 pesos per un dollaro (1000, si diceva, è quello reale dei cambiavaluta), o a ritoccare una serie di tabelle riservate agli esportatori. Per restare nel surreale, in Argentina i tipi di cambio sono una ventina: c'è persino il peso Netflix, per consentire alla gente di guardare le serie senza svenarsi, così come c'era il peso Qatar, per chi ha seguito Messi e compagni nel vittorioso Mondiale dello scorso dicembre e ha dovuto usare la carta di credito. L'inflazione e i cambi multipli sono la festa degli speculatori. Negli ultimi giorni in vista del voto gli scaffali si sono svuotati, i grossisti aspettano per capire quali saranno i nuovi prezzi. Nella catena di super Dia è impossibile trovare caffè che non sia istantaneo, e mancano molti generi di consumo tra cui l’olio di oliva. I peronisti sostengono che grazie a loro in Argentina tutto è indicizzato, i poveri non sono mai lasciati soli in periodi di inflazione, e la disoccupazione non è poi così alta (7 per cento). Ma è una realtà distorta, la quintessenza del populismo, perché l'inflazione toglie con due mani quello che i sussidi danno con una. Tutto a causa di una spesa pubblica fuori controllo e un livello artificiale dei consumi interni. Fino a una decina di anni fa l'inflazione era addirittura negata dal governo, che manometteva gli indici grazie al controllo politico dell'istituto di statistica.
L'eterno justicialismo argentino è passato nell'ultimo ventennio per le mani della famiglia Kirchner (prima Nestor, poi Cristina) e ora punta su Massa, un figliuol prodigo. L'universo peronista è assai screditato, soprattutto nelle zone urbane. Milei ha fatto il pieno in città come Cordoba e Mendoza, mentre storicamente anche a Buenos Aires la classe media produttiva non vota per i peronisti. Ma tutto si gioca come sempre in Argentina nella grande provincia della capitale, dove vive un terzo dell'elettorato ed è quasi impossibile sottrarre il potere ai peronisti. Dovesse Milei sfondare anche qui, si chiuderebbe un'epoca. Ma tutto dipende se l'elezione andrà al secondo turno. In questo caso gli eccessi del “libertario”, le sue proposte estreme in economia, potrebbero riportare voti nelle urne ai peronisti dell'usato sicuro e la storia dell'Argentina non subirebbe lo scossone oggi così temuto.
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