Due sole cose sono certe. Il premier francese Gabriel Attal resterà ancora in carica qualche settimana (e, chissà, può darsi anche oltre). Dopo il ballottaggio delle legislative, come galateo istituzionale vuole, ha rassegnato le dimissioni, e il presidente Emmanuel Macron le ha respinte.

Il potere non può essere vacante se incombono la sacra festa repubblicana del 14 luglio e a seguire le Olimpiadi. Secondo: non si può votare per dodici mesi, così dice la legge, e bisognerà pur trovare un governo al paese. Quale? È un rebus così inestricabile che il capo dello stato si è preso il tempo necessario per riflettere.

Tattica e strategia 

Macron ha vinto la sua mossa di poker, avendo in mano al massimo una coppia vestita, quando ha sciolto l’Assemblea nazionale, ha fermato l’onda nera lepenista dimostrandosi un abile tattico. Ora si misurerà se è versato anche nella strategia. E l’impresa è persino più ardua.

Il solo partito che non può rientrare in qualunque schema di maggioranza è ovviamente il Rassemblement national che ha trionfato alle europee e al primo turno della legislative (e al secondo turno, pur largamente soccombente nei seggi, ha comunque racimolato il 37 per cento dei voti).

Per il resto tutto è maledettamente complicato da veti incrociati, incompatibilità, antipatie personali, parole a cui ci si è impiccati e dalle quali è arduo retrocedere. Non bastasse ci sono il sistema elettorale e la tradizione che congiurano contro le coalizioni: l’uninominale a doppio turno mal digerisce la tripartizione che si è delineata, essendosi sempre basato sulla contrapposizione secca di due schieramenti.

Le maggioranze possibili

Le maggioranze possibili sono essenzialmente due. Entrambe presentano incognite e ostacoli difficili da superare. Per come lo abbiano conosciuto nei sette anni all’Eliseo, Emmanuel Macron vorrebbe senza dubbio escludere la sinistra estrema, i deputati della France insoumise di Jean-Luc Mélenchon nonostante rappresentino la fetta più grossa degli eletti del Nuovo fronte popolare.

Impresentabili, dal suo punto di vista, come l’estrema destra. Per superare il numero magico di 289, la cifra che segna la maggioranza, dovrebbe imbarcare i 45 Républicains, la destra moderata neo-gollista, premiandola per non aver seguito il proprio presidente transfuga Éric Ciotti corso tra le braccia di Le Pen (il suo precipitarsi sul carro sbagliato provoca contemporaneamente pena e un sorriso sarcastico).

Ma l’alleanza contro-natura sarebbe indigesta per socialisti, verdi e comunisti, le altre componenti del Fronte. Tanto più perché il popolo di sinistra ha sempre chiesto l’unità del proprio schieramento bollando come “traditori” coloro che fanno accordi con il nemico.

La soluzione più coerente con la volontà espressa dai francesi sarebbe un governo tra il Fronte popolare e il centro. Troppo semplice all’apparenza. Nella realtà persino più complicato dell’ipotesi precedente. Macron non vuole Mélenchon e viceversa.

Ad aggravare il quadro, la scarsa compatibilità di Mélenchon persino con i suoi stessi alleati nella coalizione, segnatamente Raphaël Glucksmann, l’uomo nuovo, leader di Place publique, Marine Tondelier dei Verdi, e Olivier Faure dei socialisti. E questo nonostante Mélenchon sia stato il più convinto architetto nella costruzione della barriera antifascista e, con la sua adesione totale alla desistenza al doppio turno, abbia favorito anche la rinascita del centro macronista. Un dato eloquente: il Rassemblement national di Marine Le Pen ha perso in 145 circoscrizioni dove era in vantaggio al primo turno.

Un arbitro contestato

Macron resta sicuramente l’arbitro, il ruolo glielo consente, ma è un arbitro contestato. Nella sua stessa formazione c’è chi gli imputa lo scioglimento dell’Assemblea nazionale (Attal) e un suo ex delfino come l’ex premier e sindaco di Le Havre Édouard Philippe, probabile candidato alle presidenziali fra tre anni, ha voluto segnare una distanza dall’Eliseo.

Non solo, un moderato come Glucksmann gli rimprovera l’uso di alcune sue prerogative come l’articolo 49.3 che consente l’approvazione di progetti di legge senza il voto dei deputati. E qui si entra in un terreno delicato. Mai come oggi, nel corso della Quinta Repubblica, i francesi si stanno interrogando sui poteri eccessivi dell’Eliseo e in molti auspicano un riequilibrio a favore del parlamento, diventato centrale proprio in questa tornata elettorale a causa delle circostanze eccezionali. E succede proprio con il presidente che ha interpretato in modo jupiterista il suo mandato, un Giove disceso sulla terra ad amministrare lo stato.

Uscire dalla palude

Ma è tutta l’architettura istituzionale ad avere mostrato delle crepe, al punto da suggerire alcune correzioni. Intanto perché non ha garantito, come in passato, la governabilità. E poi perché ci si è resi conto che il doppio turno di ballottaggio penalizza la rappresentanza come è dimostrato dal 37 per cento dei lepenisti, primato nei consensi, che si è tradotto nel terzo posto per numero di seggi.

Per uscire dalla palude, Macron potrebbe optare per l’inedito, la nomina di un governo tecnico di sapore italiano che vada a cercarsi di volta in volta, caso per caso, i voti necessari per approvare le leggi. Magari avendo come garanti dei nomi altisonanti, riserve riconosciute della République. Ma per risalire nella popolarità sbiadita presso i francesi il presidente dovrebbe recuperare dal suo vocabolario una parola spesso spesa ai tempi della sua prima vittoriosa campagna, come lo invita a fare Jerome Fenoglio, il direttore di Le Monde nel suo editoriale. La parola è progressismo. L’ha usata ma non l'ha mai messa in pratica.

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