«Dobbiamo attaccare il separatismo islamico». Non poteva utilizzare parole più dirette Emmanuel Macron per indicare il bersaglio. I limiti della missione sono stati ovviamente ben definiti, precisando che si tratta di «lottare contro la deriva di qualcuno, non di stigmatizzare un’intera religione». Il discorso di sedici cartelle pronunciato nella banlieue di Les Mureaux, a una quarantina di chilometri da Parigi, suona anche come un chiaro posizionamento in vista delle prossime elezioni presidenziali.

È possibile sentire nel tono l’influenza del nuovo ministro dell’interno Gérald Darmanin. Il separatismo islamico è inquadrato da Macron come una «ideologia che afferma che le sue leggi sono superiori a quelle della Repubblica», si agita lo spettro delle società parallele.

Quella del Presidente è una «chiamata alla mobilitazione» di tutta la Nazione che si concretizzerà in un progetto di legge che sarà presentato in Parlamento il prossimo 9 dicembre al fine di rafforzare la «neutralità dei servizi pubblici».

Non sarà più possibile chiedere orari di accesso differenziati alle piscine pubbliche per uomini e donne, «approvata la legge il prefetto potrà sospendere queste ordinanze locali». L’attività delle associazioni, il loro finanziamento dall’estero, tutto sarà sottoposto a un controllo rigoroso.

Un cambio di paradigma

Christian Chesnot e Georges Malbrunot avevano già evidenziato in Qatar Papers. Comment l’èmirat finance l’islam de France et d’Europe (pubblicato nel 2019), quanto la questione del finanziamento dall’estero delle associazioni islamiche fosse problematica. Per Macron è necessario arginare e fermare quella che arriva a definire una vera e propria «deriva», dichiarando che «all’islamismo radicale esibito con fierezza opporremo un patriottismo repubblicano».

In questo scenario sarà centrale, nell’impostazione di Macron, l’azione sulla scuola. È quindi opportuno fermare la diffusione dell’istruzione domiciliare che sottrae ogni anno migliaia di ragazzi al sistema pubblico di insegnamento.

È necessario, sostiene Macron, «cambiare paradigma» e riportare tutto sotto il controllo dello Stato. Infine è necessario costruire un «Islam des Lumières», una religione che sia adatta ad essere un partner dello Stato francese e che non sia egemonizzata da influenze straniere. Dice Macron che lo Stato non può «organizzare» una religione, ma allo stesso tempo invoca interventi incisivi dei poteri pubblici, ad esempio per mettere fine al fenomeno degli imam importati da Turchia, Marocco e Algeria. La Francia dovrà formare i suoi imam.

La laicità

Di recente nessun politico europeo ha dedicato tanta attenzione ad una sola religione così come ha fatto Emmanuel Macron nei confronti dell’islam. La religione civile nazionale della laïcité e il principio supremo del vivre ensamble, che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato nel caso S.A.S. vs. Francia quando non ha constatato una violazione della Convenzione da parte dello Stato francese per la legge che dal 2011 vieta di coprirsi il volto in pubblico, costituiscono parte dell’identità profonda di quella Francia che ora si sente minacciata dalla visibilità e dal protagonismo di una religione.

Per questo ricorre ai suoi classici strumenti politici e giuridici per porre rimedio. Mentre la secolarizzazione aumenta tra i non musulmani, e il fattore religioso assume un peso sempre più marginale nella vita delle persone, il contrario avviene nelle comunità musulmane in cui la trasmissione della fede religiosa assume centralità anche nei passaggi di consegne generazionali.

Può il tradizionale armamentario della laïcité francese essere utile a vincere la sfida dell’inclusione e della lotta alle derive, che ci sono e non possono essere negate, dell’islamismo radicale? Come ha sottolineato Olivier Roy, intervenendo su La Croix, il progetto di Macron presenta alcuni aspetti problematici.

È davvero possibile intervenire nei confronti di una sola religione? Vietando l’alimentazione ḥalāl nelle mense scolastiche, cosa succederà a vegetariani, buddisti, ebrei praticanti? Davvero non è possibile chiedere che non vi sia un obbligo di mangiare la carne e prevedere degli accomodamenti ragionevoli? E se il rifiuto della promiscuità costituisce una forma di separatismo si renderà allora necessario decretare lo scioglimento degli ordini monastici? Queste sono solo alcune delle questioni che Roy evidenzia nel suo intervento.

Un modello monodimensionale

L’impostazione del progetto di Macron risponde ad un modello ormai radicato nella storia e nell’identità della Repubblica francese secondo cui spetta allo stato, e solo allo stato, formattare e assegnare il posto ai gruppi sociali all’interno della comunità nazionale.

È un modello monodimensionale e westfaliano che riesce a pensare solo in termini di comando dal centro alla periferia secondo il classico teorema napoleonico. Un modello legalista e gerarchico che pensa che la legge, con la sola sua forza, sia sempre e solo l’unico strumento di azione utile ad affrontare i problemi sociali. Il famoso «ci vuole una legge!» che tante volte abbiamo avuto modo di ascoltare anche nel nostro paese.

L’infiltrazione dell’islamismo radicale non riguarda però solo lo stato e non può essere risolta solo mediante l’azione dello stato. Macron nel suo discorso, in alcuni passaggi, dimostra di essere consapevole di questo problema ma non si sforza di articolarlo se non tramite un generico richiamo alla «mobilitazione della nazione».

In Quand la religion s’invite dans l’enterprise (del 2017) Denis Maillard ha ampiamente documentato quanto la strategia perseguita da alcuni gruppi islamisti non riguardi solo lo spazio pubblico, ma anche il tessuto economico ed imprenditoriale.

Ad esempio, un’impresa ha dovuto affrontare uno sciopero dei suoi dipendenti, in maggioranza musulmani, che si rifiutavano di fabbricare componenti di metallo che sarebbero dovute servire alla fabbricazione di un ponte in Israele. È quindi necessario mobilitare non solo la forza della legge, ma tutte le organizzazioni della società civile e, prima di tutto, le forze delle stesse comunità musulmane.

Gli eventi italiani ce l’hanno già insegnato: quando nel 2016 Ali Abu Shwaima, l’imam della moschea di Segrate, aveva invitato le donne musulmane a non andare in bicicletta, perché non appropriato per una donna, sono state le stesse donne della sua comunità a rispondergli organizzando una pedalata pubblica per ribadire il loro diritto di scegliere di andare in bicicletta.

Il dibattito francese ci spinge a riflettere su quanto anche il nostro paese si stia interrogando sulla necessità di adottare una strategia per l’inclusione delle minoranze, musulmane e non, sempre più numerose.

Anche in Italia serve una riflessione

È forse opportuno lanciare un grido d’allarme davanti all’inerzia che negli ultimi anni ha caratterizzato le istituzioni pubbliche italiane. Il Consiglio per le relazioni con l’islam italiano aveva consegnato all’allora ministro dell’Interno Marco Minniti un rapporto con suggerimenti e indicazioni concrete che sicuramente, per dirlo con le parole di Arturo Carlo Jemolo, non coltivavano la «la puerile speranza di attuare il Paradiso in Terra».

Potevano tuttavia costituire l’inizio di una politica religiosa attenta alle complessità e alle sfide che la modernità porta al paese. Tuttavia sui punti indicati da Macron per la Francia non risultano essere stati fatti negli ultimi anni passi in avanti rispetto al timido inizio di riflessione tentato con Minniti. Sarebbe opportuno mettere da parte la lunga stagione delle consulte e dei comitati, sicuramente utili ad approfondire la riflessione sui problemi, per concentrarsi sulle possibilità concrete di azione e d’iniziativa politica e legislativa.

Fino a oggi, anche grazie all’opera puntuale dei nostri servizi di sicurezza, l’Italia è riuscita ad evitare attacchi terroristici come quelli che hanno insanguinato le strade di molti paesi europei. Sarebbe bene riflettere sulle questioni poste dal pluralismo religioso e culturale senza l’assillo della legislazione d’emergenza, avendo i piedi ben piantati per terra e con le necessarie evidenze empiriche.

Solo una politica della concretezza può sostituirsi al ricatto della facile strumentalizzazione e alla narrazione dell’emergenza. Solo una politica capace di includere le comunità stesse nel suo disegno riformatore è destinata ad avere successo e a garantire inclusione e sicurezza. La legge è sicuramente uno strumento utile, non l’unico possibile.


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