Il mandato di cattura spiccato dalla Corte penale internazionale per Netanyahu e Gallant, avrà effetto sulla guerra in Medio Oriente? Condizionerà in un senso o nell’altro i protagonisti del conflitto, Israele e Hamas, l’Iran e i suoi proxies, o i paesi arabi della regione? La risposta è no. Almeno sul breve termine.

Può, invece, ottenere l’irrigidente effetto di rendere impossibile ogni residua prospettiva negoziale. Come mostrano le reazioni in Israele alla pronuncia dell’Aja , sfociate nella dura, trasversale, prevedibile critica a organismi internazionali, si tratti dell’Onu o della Cpi, ai quali non riconosce alcuna legittimità. Corredata dall’istintivo riflesso a “contare sulle proprie forze”, a fare da soli. Dove soli significa, naturalmente, con l’appoggio più o meno totale degli Stati Uniti, sia che nello Studio Ovale ci sia Biden oppure l’atteso e più gradito Trump.

Nessuna critica ammessa

Il bollare le accuse dei magistrati internazionali, che pure non hanno sollevato la contestata questione “genocidio”, come antisemitismo risponde a due necessità. In primo luogo, creare all’esterno un palese effetto interdittivo, impedendo ogni critica a scelte politiche e militari che paiono, più che sproporzionate, indifferenti alle sorti di chi non è israeliano. Scelte che paiono escludere qualsiasi prospettiva alla formula “due popoli, due stati”, sposata dalla comunità internazionale dopo lo scioccante massacro del 7 ottobre.

Condotta che disorienta le opinioni pubbliche occidentali, anche perché Israele si presenta come la sola democrazia della regione.

La strategia di Bibi

In seconda battuta, alimentare all’interno, oltre che la continuità di governo del longevo e inguaiato Bibi, quella sindrome del nemico che favorisce il serrare i ranghi, il respingere qualsiasi interferenza esterna, ritenuta inammissibile. Prospettiva, e narrazione, che consente di continuare la guerra a oltranza, destinata a ridisegnare – di sicuro a sud, e se serve, e sarà possibile, anche a nord – i confini dello stato ebraico.

La presenza pochi giorni fa di Netanyahu in riva al mare, al termine del corridoio di Netzarin – che dovrebbe segnare il nuovo confine, con l’annessione di fatto della parte settentrionale di Gaza dopo aver fatto evacuare, in quella meridionale o altrove, la popolazione civile ancora presente – non voleva essere solo un’incoraggiante visita, di stampo churchilliano, alle truppe dell’Idf lì dislocate.

Il trionfante Bibi voleva far vedere al mondo islamico, e a chi lo sostiene in patria, compresi i coloni guidati dalla storica leader del movimento Daniela Weiss che chiedono il ritorno a Gaza, chi era ormai il nuovo padrone di quella strategica parte della Striscia.

Tassello definitivo di questa fase dovrebbe essere, per i leader della destra estrema messianica come il kahanista Ben Gvir e il nazionalreligioso Smotrich, che ora la reclamano come «compensazione» allo «sfregio» dell’Aja, l’annessione di «Giudea e Samaria», ovvero dei Territori occupati in Cisgiordania.

Del resto, questi ambienti politici estremisti hanno sempre considerato favorevoli le fasi di “isolamento” di Israele, poiché si prestano a colpi di mano favoriti dal rarefarsi di relazioni ritenute “pericolose”. Dunque, Netanyahu farà della «persecutoria» decisione della Cpi, contando sull’indefettibile appoggio degli Usa che come Israele non ne riconosce l’autorità, occasione per stravolgere ulteriormente il gioco, per tagliarsi i ponti alle spalle con i paesi decisi a far rispettare la decisione della Corte. Opzione che consente di ridurre l’effetto pressione, in particolare dei paesi alleati, sulla condotta della guerra.

Gli effetti sul lungo periodo

Sul lungo periodo, invece, la decisione dei giudici internazionali rafforzerà l’isolamento già forte di Israele, non solo nel cosiddetto “sud globale”, ma anche nelle opinioni pubbliche occidentali, sopratutto tra i più giovani e tra quanti sono favorevoli alla formula “due popoli, due stati”, che criticano duramente Netanyahu e la destra nazionalista e nazionalreligiosa messianica, che lo appoggia e insieme lo tiene in ostaggio, non per supposto antisemitismo, accusa rivolta spesso strumentalmente anche a chi per valori, orientamento culturale e politico, di certo antisemita non è. Un fattore che potrebbe avere, in determinate fasi del ciclo politico internazionale – non parrebbe l’attuale – un certo peso. Ma sul punto Bibi è temporalmente “keynesiano”: sul lungo periodo, sosteneva il pur preveggente Lord Maynard, chi vivrà vedrà.

Un effetto diverso la pronuncia dell’Aja potrebbe avere, più che sul campo “antisionista” guidato dall’Iran – Teheran e i suoi stretti alleati non avevano certo bisogno della decisione de l’Aja per ridefinire il volto del Nemico – nei cosiddetti paesi arabi “moderati” (termine che, fuori dalla retorica, nulla ha a che fare con il moderatismo di questo o quel regime, ma con la collocazione internazionale non ostile all’Occidente).

Più complesso, infatti, per i paesi che intendono stringere rapporti con Israele, e liberarsi definitivamente della questione palestinese, ignorare gli effetti delle accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di un paese con il quale i regimi dell’area vorrebbero normalizzare i rapporti.

Difficile anche per governanti come il Bin Salman, che non ha ancora il pieno controllo del campo religioso e teme insidie che possono venire da ambienti ostili dell’estesa famiglia reale.

Firmare gli Accordi di Abramo, prevedibile iniziativa degli Usa in salsa trumpiana per chiudere, anche diplomaticamente, ogni spiraglio al ritorno in scena sotto forma statuale della questione palestinese, potrebbe essere complicato in presenza di accuse, come quelle rivolte a Israele, difficili da ignorare anche in un mondo arabo ormai disincantato: persino per lo spregiudicato principe saudita.

Un tassello del complicato puzzle mediorientale che né Netanyahu né Trump vorrebbero vedere riporre nel cassetto.

© Riproduzione riservata