- Costretto a fare finalmente politica, Draghi ha rovesciato sui senatori che si apprestavano a voltargli le spalle le voci di fuori, di un paese che assiste distratto e allibito all’ennesima crisi politica, la più grave.
- Ora non si tratta di chiedere al premier uscente di farsi partito, ma di colmare il suo progetto di paese in quello che finora è sempre mancato: una radice nella società, un affondo nella realtà.
- A questa sfida è chiamato soprattutto il Pd. Contro una destra pronta a prendersi tutto, la sfida è rifondare quello schieramento popolare, il partito che (ancora) non c’è che Draghi ha fatto balenare.
L’ultima immagine prima del voto di fiducia è tutti in piedi, la confusione, la conta del numero legale, il capannello attorno al presidente del Consiglio Mario Draghi ai banchi del governo. Si potevano soltanto immaginare i pensieri del banchiere che ha scherzato sul suo cuore, provare a indovinarli in una seduta interminabile come un supplizio, nei gesti impercettibili, in un momento di stizza verso il microfono non funzionante, nella solitudine in cui si è immerso per tutta la giornata, in silenzio tra i ministri Luigi Di Maio e Lorenzo Guerini.
Veniva in mente una scena di quattordici anni fa, anche quella volta nell’aula del Senato della Repubblica. «Stare qui non è testardaggine, è coerenza, non si fugge davanti a un giudizio. Dobbiamo toglierci di dosso questo fango, anche per questo sono qui», disse il premier dell’epoca Romano Prodi.
Era il 24 gennaio 2008, dopo una seduta segnata dagli sputi, gli svenimenti, la mortadella e lo spumante. «Meglio perdere che perdersi», commentò il prodiano Arturo Parisi. Il senatore Franco Turigliatto, il trotzkista, votò no, tra le ovazioni della destra, la scena si è ripetuta, questa volta è stata la capogruppo del Movimento 5 stelle Mariolina Castellone ad auto-licenziarsi con un allegro «togliamo il disturbo», che spalanca le porte a un voto anticipato con un probabile successo della destra guidata da Giorgia Meloni, la vera vincitrice della giornata, che si affaccia in piazza mentre nel palazzo si consuma il dramma.
La moltiplicazione dei no
Tolgono il disturbo. Il «miracolo civile» del governo di unità nazionale non si è ripetuto, si è capovolto nel suo opposto, nella moltiplicazione dei no. Lo sfarinamento invocato da Draghi nel suo discorso di apertura, una citazione di Rino Formica di una crisi di governo di quarant’anni fa, diventa alla fine una valanga, una slavina.
Esce dall’aula Forza Italia, esce dall’aula la Lega, escono dall’aula i Cinque Stelle. Votano solo in 133, in appena 95 danno la fiducia più striminzita al presidente della defunta unità nazionale. Finisce così la legislatura più folle della storia repubblicana che potrà vantare come unico risultato il taglio del numero dei parlamentari. Con un percorso di disfacimento, con un autoscioglimento collettivo, il tutti a casa, un nuovo 8 settembre.
Tolgono il disturbo, ma sono stati quattro anni e più persi, un buco nero che ha inghiottito governi, formule politiche, leadership e al termine perfino Mario Draghi. Una legislatura senza un baricentro, senza un punto di equilibrio che non fosse la sua stessa sopravvivenza, durare a dispetto di coerenze, impegni con gli elettori, razionalità, dignità. Fino agli spettacoli imprevisti della giornata decisiva.
La mossa Salvini
Nel copione della vigilia i protagonisti della crisi dovevano essere i Cinque stelle, la giornata viveva dello scontro tra Draghi e Giuseppe Conte, che invece si è dileguato. Fin dalle prime battute si è capito che la parte del duellante sarebbe stata occupata da Matteo Salvini, desideroso di recuperare la leadership della destra smarrita in questi mesi a vantaggio di Meloni. Nella debolezza di Draghi, Salvini ha visto l’occasione di riprendersi il primato, nel centrodestra e nella Lega: vedi lo sguardo perso nel vuoto di Giancarlo Giorgetti al termine del discorso di Draghi.
La mossa di Salvini, come il trenino dei desideri che all’incontrario va, ha trainato Forza Italia e poi la stretta cerchia di Silvio Berlusconi che per tutta la giornata ha interdetto al Cavaliere la possibilità di parlare con Draghi, con Gianni Letta e con i ministri. Al posto della prevista rissa tra i Cinque stelle c’è stato invece il litigio tra Gelmini e Ronzulli a favore di cronisti e quindi l’addio della ministra a Forza Italia.
Il centrodestra si è in apparenza ricompattato, ma sulla posizione più estremista: i moderati svaniscono o si preparano a incassare qualche collegio. Draghi ha forse sottovalutato l’istinto ferito di Salvini, mai a suo agio nei panni del futuro capo dei centristi. O, al contrario, ha voluto farlo riemergere, riportandolo al modello originale.
Nelle prossime settimane Salvini tornerà al suo più comodo repertorio di stop agli sbarchi, difesa dei pescatori, dei tassisti, dell’Italia avvelenata dalla crisi. L’Italia della rabbia e del disagio che i Cinque stelle hanno abbandonato per rifugiarsi nel palazzo, ora attende una rappresentanza politica. Salvini è pronto a offrirla, in competizione con Giorgia Meloni. Un ritorno all’indietro che promette sconquassi.
Il Partito della nazione
Nell’attesa, un abbozzo di rappresentanza, è la vera sorpresa della giornata, è sembrato volerlo cercare il personaggio più lontano dalle strategie di marketing ricerca del consenso, il premier Draghi.
Con i suoi continui richiami all’Italia che in questi giorni si è mobilitata in difesa del suo governo: i sindaci, le associazioni, il terzo settore, le categorie economiche, lo sport, citato esplicitamente perché all’ex banchiere centrale non è sfuggito l’appello del presidente del Coni Giovanni Malagò.
Costretto a fare finalmente politica, la politica rifuggita e poco amata per non dire di peggio, Draghi ha rovesciato sui senatori che si apprestavano a voltargli le spalle le voci di fuori, di un paese che assiste distratto e allibito all’ennesima crisi politica, la più grave.
È sembrato parlare a nome del Partito della nazione, il Country party, il fronte dell’interesse generale. «La risposta che vi chiedo non la dovete dare a me, ma agli italiani», ha detto alla fine del suo discorso.
È apparsa una trasfigurazione, la nascita in un’aula parlamentare del banchiere del popolo, contro l’avvocato del popolo che ha smarrito gli elettori e contro i sovranisti di altra natura. Per ora è un’illusione ottica.
Le istituzioni personali
Prima di tutto perché è da vedere in che modo questa mobilitazione potrà tradursi in consenso elettorale, come Matteo Renzi (e Carlo Calenda), ma anche un pezzo del Pd si propongono di fare. Ma soprattutto perché gli appelli degli intellettuali, con il loro narcisismo, della minoranza rumorosa della Ztl, dei vertici (i sindaci, i presidenti), esaltano e non riempiono il vuoto della politica, l’assenza dei partiti, costretti ad affidarsi ad agenzie esterne, a una società civile più di vertice che di base, piuttosto che contare sulle proprie energie e sulle proprie strutture.
Dopo la stagione dei partiti personali si è assistito in queste settimane all’embrione delle istituzioni personali: istituzioni o territori che si identificano con le persone che provvisoriamente le occupano, come sembrano voler fare alcuni sindaci. Un altro fattore di debolezza del sistema.
Draghi non è mai stato neppure percorso da questa tentazione, per fortuna. Chi vuole fare politica, soprattutto ora, ha una strada maestra, partecipare alla campagna elettorale. Su Draghi pesa il pessimo esempio di Mario Monti con Scelta civica nel 2013, da evitare. Ma c’è l’esigenza di non disperdere l’esperienza di governo o affidarla a epigoni di comodo, in cerca di un’etichetta riconoscibile con cui presentarsi sul mercato elettorale.
Non si tratta di chiedere al premier uscente di farsi partito, ma di colmare il suo progetto di paese in quello che finora è sempre mancato: una radice nella società, un affondo nella realtà. Era un lavoro che un tempo facevano i partiti. Non può essere sostituito dai tecnici e dai politici improvvisati che diventano i tatticisti di palazzo più esasperati, come dimostra la parabola dei Cinque stelle.
A questa sfida è chiamato soprattutto il Pd, che non potrà contare su campi larghi precocemente appassiti. Lo spirito repubblicano evocato da Draghi non è roba da appelli chic, da élite vanesie, non esiste senza un popolo alle spalle. E il popolo si costruisce con un progetto, una organizzazione, un combattimento sui territori e nella società. Un’identità e una cultura politica. Contro una destra pronta a prendersi tutto, la sfida è rifondare quello schieramento popolare, il partito che (ancora) non c’è che Draghi ha fatto balenare, mentre conosceva l’amarezza della caduta e della sconfitta.
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