A Doha si discuteva apparentemente solo di Gaza. Sullo sfondo la sfida Israele-Iran. Tel Aviv vorrebbe chiudere una volta per tutte la partita con i vicini “pericolosi”
Accordo o guerra? Fibrilla il Medioriente, stretto tra la logorante attesa per l’esito dei negoziati , che dopo l’impasse di Doha avranno un seguito in Egitto la prossima settimana, e quella per le annunciate rappresaglie iraniana e libanese contro Israele per la duplice eliminazione mirata del capo politico di Hamas Haniyeh e del comandante militare di Hezbollah Shukr. Reazione, e controreazione, che alimenterebbero il conflitto facendo naufragare ogni intesa su Gaza.
Una guerra regionale
Nell’accordo le cancellerie vedono la chiave per ridurre il rischio di escalation , anche se formalmente si affannano a tenere distinte questioni ormai connesse. Del resto, da oltre dieci mesi la comunità internazionale prova a tenere la guerra in forma, cercando di convincere i contendenti a non fare mosse che inneschino una spirale tragica.
La domanda, allora, non è, solo, se sia ancora possibile un’intesa che non riguarda più, esclusivamente, Israele e Hamas ma ha un effetto domino regionale, ma anche quella, più scottante, che nasce da una considerazione: il conflitto in corso è un gioco a somma zero, nel quale qualcuno vince e qualcuno perde, chi uscirebbe allora politicamente ammaccato o più indebolito, da un eventuale intesa? Condizione, quest’ultima, che, in genere, pone le premesse per una guerra successiva, talvolta più vicina di quanto immagini. Nel tempo di un’evidente assenza di egemonia mondiale, la vera posta in gioco nel negoziato, è: guerra regionale subito o dopo Gaza, assai problematico, da costruire.
Certo, c’è la necessità immediata di porre fine alla tragedia di decine di migliaia di vittime, distruzioni, sofferenze, nella Striscia e di liberare gli ostaggi lì ancora prigionieri. Ma se il “sabato nero” ha provocato una così devastante reazione non è solo per sete di vendetta, o esigenza di ripristinare la deterrenza, ma perché, almeno per Israele, è stata concepita come opportunità di ridefinizione strategica della propria politica estera e di sicurezza: eliminando “i nemici ai confini” e chiarendo i rapporti di forza con il loro sponsor iraniano.
Pare sfuggire, dunque, che a Doha si discuteva solo apparentemente di Gaza. Certo, un’intesa ha come visibile posta lo scambio politico “ritiro contro rilascio”, ma nel piatto del negoziato ci sono i futuri equilibri nella regione. Se andasse in porto, i contendenti sarebbero nudi: davanti ai loro popoli, ai loro sostenitori, ai loro alleati. Comprare tempo diventerebbe più difficile e verrebbero a galla i nodi che nessuno è in grado di tagliare gordianamente ma nemmeno sciogliere con pazienza. A partire dalle questioni, da far tremare i polsi, dei due stati, della colonizzazione in Cisgiordania, dell’appoggio dell’Iran a Hamas, del ruolo di Hezbollah in Libano.
I conti aperti con l’Iran
In questo senso il bellicismo a oltranza di Netanyahu ha una tragica coerenza, legata alla consapevolezza che quei complicati intrecci possono essere sciolti solo da una soluzione militare che ridisegni tutto. Come ha ribadito il premier nel suo discorso al Congresso Usa, per Israele il problema vero è l’Iran. Se il governo di estrema destra di Bibi vuole realizzare i suoi obiettivi strategici - normalizzazione delle relazioni con i paesi arabi, Arabia Saudita compresa, “bantustan”, e non stato, per i palestinesi, colonizzazione della Cisgiordania, fasce di sicurezza permanenti ai confini nord e sud-, deve mettere nel mirino Iran e Hezbollah. Uccidendo Haniyeh - in quelle modalità, una sfida inaudita per la sovranità, la deterrenza, l’onore degli iraniani-, Netanyahu sapeva bene cosa metteva in moto. Eppure lo ha fatto: pronto a cogliere l’occasione, in caso di reazione iraniana, per regolare definitivamente i conti con il principale attore de “l’Asse della Resistenza”.
Quanto a Hamas, con la sfida del 7 ottobre ha cercato di non essere eliminato dal gioco: cosa che la firma saudita degli Accordi di Abramo avrebbe sancito. Ma sia l’attacco a Israele, sia la reazione dello Stato ebraico, sono andati oltre le previsioni. Hamas si è così ritrovato a mettere a rischio il suo incontrastato regno, del quale, almeno a livello del suolo, sono rimasti solo lutti e macerie.
Possibile che, dopo aver pagato un simile prezzo, si limiti ora a siglare un accordo che prevede una tregua contro il rilascio degli ostaggi superstiti, senza alcuna certezza che non riprendano le ostilità? Sinwar chiede il ritiro totale da Gaza di Israele, dunque l’ammissione della sua sconfitta politica e militare. Puntando poi capitalizzare la tregua per ricostituire le fila dell’organizzazione e partecipare all’eventuale negoziato per la nascita di uno stato palestinese, fatto balenare da Biden, in cui Hamas non avrebbe un ruolo centrale ma nemmeno di seconda fila.
La vera posta in gioco
Nella trattativa, dunque, la posta in gioco è più alta della sola tregua a Gaza. Da qui la difficoltà a di entrambi i contendenti a dire si all’intesa. Sono consapevoli che qualcuno uscirà strategicamente sconfitto da questa partita. Usa, Egitto e Qatar, parlano di «scuse e ritardi» per rendere conto del fallimento di questa tornata a Doha.
Ma almeno Washington dovrebbe sapere che se non si riesce a premere efficacemente sulle parti, alleate o meno, le esortazioni non bastano: condizione, peraltro, legata al doppio ruolo di mediatore e principale alleato di una delle parti. Spesso la più recalcitrante.
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