Sulla strada per Damasco si scontrano sul campo le ambizioni e gli interessi americani, russi, israeliani, iraniani e turchi. E con Mosca intenta a combattere in Ucraina Assad rischia di perdere la garanzia di sopravvivenza del proprio regime
Gli sviluppi della guerra in Siria si palesano per quello che sono: un tassello di un unico conflitto globale. A combattere, non solo attraverso alleati locali, anche Usa e Russia. E, solo per restare agli attori statali che agiscono dell’area, vi giocano un ruolo rilevante anche Turchia e Israele.
Insomma, se mai lo è stato, lo scenario mediorientale non è più regionale, ma un’arena in cui si ridefiniscono nuovi rapporti di forza mondiali.
Assad indebolito
L’attacco della coalizione sunnita anti-Assad, formata dagli ex- qaedisti di Al Nusra ”ripuliti” sotto la sigla Hayat Tharir al Sham (HTS) e dall’Esercito Nazionale Siriano (ENS), oltre a formazioni minori di ex-jihadisti che hanno combattuto con l’Isis al tempo del “Califfato”, non avrebbe avuto successo se il regime siriano non fosse stato indebolito dall’affievolirsi di quella protezione russa, iraniana e dell’Hezbollah libanese, che ha consentito al potere familiare e clanico dell’alawita Assad di reggere il disastroso impatto della guerra civile esplosa dopo il 2011.
È solo grazie all’aiuto di Mosca, Teheran, e della Beirut sciita, che Assad è riuscito a sopravvivere nel corso di quel devastante conflitto. Da due anni a questa parte, però, altre urgenze hanno reso meno incisiva quella garanzia esterna.
Condizionata dalla guerra in Ucraina, la Russia - che pure vuole mantenere in Siria le basi aeree di Khmeimin e quelle navali di Tartus e Lakatia, decisive per inverare il mito motore geopolitico dello sbocco di Mosca ai “mari caldi” - non ha certo potuto aumentare la sua presenza militare in quella parte di Mezzaluna fertile.
Il Donbass assorbe ingenti risorse, umane e materiali. E se Putin deve accettare il sostegno nordcoreano in Ucraina, non può certo rafforzare il contingente in Siria. I tempi della Wagner sono finiti da un pezzo: lo “zar” è il primo a saperlo. Per assicurare la stabilità del fragile regime di Damasco non basta essere presenti nel paese, così come non basta la guerra aerea. Mancano gli “stivali” che, nel recente passato, hanno calcato quel terreno: quelli di Hezbollah e dei Pasdaran, decisivi per sconfiggere l’Isis e tenere in piedi il regime.
Sull’onda della guerra dei proxies sostenuta dall’Iran per fiancheggiare Hamas nello scontro con Israele a Gaza, le milizie del Partito di Dio e le forze speciali dei Guardiani della Rivoluzione, sono, infatti, in gran parte tornate a casa.
Troppo a rischio, dopo i duri attacchi israeliani e quelli che potrebbero ancora venire, l’influenza di Hezbollah nel Paese dei Cedri e il potere di turbanti e elmetti in Iran. Dopo gli scossoni degli ultimi mesi, dovevano fare quadrato in patria. E così è stato.
Mosca nel mirino
In simili frangenti, indebolire la Russia è stata una delle priorità degli Stati Uniti. Così come mettere in difficoltà gli alleati mediorientali di Mosca: Iran, Hezbollah e Siria. Su questo obiettivo, fondamentale sia per gli Usa che per Israele, non è stato difficile registrare convergenze tra Biden e Netanyahu. A partire dall’interruzione dei flussi di armi iraniane per Hezbollah.
Non stupisce, così, il raid aereo Usa contro le milizie sciite irachene, parte dell’Asse della Resistenza che ruota attorno all’Iran, forse in trasferimento verso la Siria nord-occidentale per sostenere Assad.
Azione che rende esplicita la convergenza degli interessi strategici americani e israeliani e spiega molto a proposito della volontà di Washington di non rompere con il riottoso Bibi su Gaza.
A guadagnare politicamente dalla crisi del regime di Assad è anche la Turchia, che in veste di protettrice della coalizione sunnita, coltiva spregiudicatamente la sua politica neottomana.
Le ambizioni di Erdogan
In Siria, Erdogan si muove, senza troppe remore, tra forze islamiste salafite e gruppi filo-americani, con l’obiettivo di massimizzare la propria rendita politica.
I molti volti-maschera consentono al leader turco di sostenere, idealmente, Hamas in funzione antisraeliana, di appoggiare le forze che in Siria si battono contro gli iraniani e gli sciiti libanesi, a loro volta sostenitori attivi della branca palestinese dei Fratelli Musulmani impegnata nella lotta a “l’entità sionista” nella Striscia, di mantenere concreti rapporti con il Cremlino anche se guida un paese della Nato. Nell’intento, possibile nel tempo delle geometrie variabili persino all’interno delle alleanze, di essere centrale in ogni soluzione.
Il che significa che, in cambio del disarcionamento di Assad a Damasco, il “sultano” potrebbe chiedere agli Usa, soprattutto quando Trump entrerà alla Casa Bianca, di lasciare a sé stessi i curdi del Rojava, il vero incubo locale dei turchi, e avere mano libera nell’area.
In caso contrario, Erdogan riprenderà a ritessere la tela con il Cremlino. Dando, comunque, le carte per una soluzione non sgradita a Ankara.
Così, il ministro degli Esteri Fidan manda un esplicito segnale agli Usa, ribadendo che la Turchia è per il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria e, dunque, che- qualunque siano gli sviluppi sul campo di battaglia-, non dovrà esserci alcun stato curdo guidato dall’Ypg, che Ankara ritiene una formazione terroristica. La Turchia ha, poi, un’altra carta da giocare nella regione: rispedire in patria i molti profughi siriani che hanno varcato la frontiera durante la guerra civile.
Quanto a Mosca, punta a contenere l’offensiva della coalizione sunnita, cercando di impedire che possa giungere sino a Damasco. Lo fa attraverso il sostegno aereo ma è chiaro che se la situazione divenisse problematica, e la mobilitazione delle milizie irachene non sortisse effetto, toccherebbe a Teheran, che ha indicato nella difesa della circondata città di Hama la linea rossa di turno, stare sul terreno.
I timori di Teheran
Nel frattempo, il ministro degli Esteri iraniano Araghchi, punta il dito su Washington, affermando che ci sono gli Usa dietro gli attacchi a Aleppo e nella provincia di Iblid, e definendo, significativamente, i ribelli “takfiri”: termine che indica gli islamisti jihadisti soliti ritenere apostati, e dunque bersagli, tutti i musulmani che non la pensano come loro.
Con la caduta di Assad, l’Iran vederebbe svanire non solo la guerra dei proxies in salsa libanese ma anche l’influenza nel paese costruita con tenacia dal generale Soleimani, capo della forza Al Quds dei Pasdaran, eliminato dagli americani nel 2020. Da qui l’impossibilità di sottrarsi all’attiva difesa del regime.
La crisi siriana è, dunque, più che mai internazionalizzata: come confermano anche la consultazione diplomatica iraniana con Mosca, mirata a definire una strategia di contenimento del fronte sunnita e dei loro alleati più o meno occulti, sia l’intervento aereo russo e americano su forze ostili. È un tassello della complessa partita che anche Papa Francesco ha, realisticamente, evocato come «la guerra mondiale a pezzi».
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