- Si fa presto a dirsi «atlantisti». Ma mai come oggi, non c’è un’America sola. E quella alla quale Giorgia Meloni fa riferimento è la stessa di Steve Bannon e Donald Trump.
- Fratelli d’Italia ha costruito una rete di rapporti che attraversa think tank atlantici, partiti e ambienti legati agli Stati Uniti, con tanto di «svolta conservatrice» finalizzata proprio a dare un patentino di governabilità al partito e alla sua leader.
- Ma dietro il “Washington washing” di FdI, e cioè dietro il tentativo di rassicurare gli osservatori internazionali con l’ombrello di Washington, c’è il ben poco rassicurante mondo trumpiano partecipe dell’assalto a Capitol Hill e alle istituzioni democratiche statunitensi.
Si fa presto a dirsi «atlantisti». Ma mai come oggi, non c’è un’America sola. E quella alla quale Giorgia Meloni si appiglia, nella speranza di acquisire il patentino di governabilità per palazzo Chigi, è la stessa di Steve Bannon e Donald Trump. Dietro il «Washington washing» di Fratelli d’Italia, e cioè dietro il tentativo di rassicurare gli osservatori internazionali con l’ombrello di Washington, c’è il ben poco rassicurante mondo trumpiano partecipe dell’assalto a Capitol Hill e alle istituzioni democratiche statunitensi.
La spintarella di Bannon
Facciamo un passo indietro, alle scorse elezioni europee. A preparare l’estrema destra europea all’appuntamento c’è proprio un americano. È Steve Bannon, ex di Goldman Sachs, fondatore di Breitbart, la “Bestia” della alt-right Usa, e artefice dei successi di Trump, prima di diventare poi troppo imbarazzante per Trump stesso e di cadere in disgrazia sotto il peso di numerosi scandali; si va da Cambridge Analytica, alle frodi fiscali, fino al rifiuto di collaborare col Congresso nell’inchiesta sulla presa del Campidoglio. Nell’autunno 2018 Bannon è seduto fianco a fianco con Meloni: il Rasputin della destra trumpiana Usa sta cercando di fare da ideologo e da connettore dei vari partiti dell’estrema destra europea, in vista delle elezioni per l’Europarlamento del 2019. Paul Lewis, che dirige la sezione inchieste del Guardian, bracca Bannon con la telecamera per quattro mesi, nelle sue peregrinazioni tra Bruxelles, Roma e le altre capitali. Ne esce un docufilm dove ritroviamo anche Meloni. «Il suo partito è uno dei vecchi partiti fascisti», spiega Bannon al giornalista. Una versione che poi mitiga quando i due si ritrovano al tavolo con la leader presente. «Stiamo costruendo partnership tra questi partiti», dice Bannon. «Li stai normalizzando, Steve?», chiede Lewis. E Meloni replica irritata: «Ma io sono già normale». L’operazione bannoniana è individuare partiti che lui definisce «post-fascisti», aiutarli a imporsi, collegarli fra loro.
Il “Washington washing”
Ma l’operazione di collegamento prende poi altre strade, e la galassia sovranista non riesce a farsi compatta né nel 2019, sotto la spinta di Bannon, né in tempi più recenti, con l’iniziativa orbaniana in vista delle elezioni di metà mandato dell’Europarlamento di gennaio 2022. Per Meloni, che ha un ruolo nel naufragio di questi progetti, l’esigenza di normalizzare il partito in prospettiva di governo, assieme alla competizione interna con Salvini, hanno la priorità. Anzitutto Fratelli d’Italia non solo entra, ma assume la presidenza dei conservatori europei, e si associa così all’ambiente politico dei conservatori britannici e statunitensi, ispirati da Margaret Thatcher non solo sul fronte del libero mercato, ma anche di un’Europa agganciata alla Nato, allargata a Est e politicamente annacquata. Per capire di che tipo di atlantismo si tratti, è utile risalire agli anni Novanta della “New Atlantic Initiative”, l’iniziativa di figure come Thatcher e Henry Kissinger per includere Visegrad nella Nato e nell’Ue. Consulente di Thatcher era John O’Sullivan, che proprio all’epoca conobbe Viktor Orbán e che tuttora, dall’avamposto budapestino del Danube Institute, intesse per lui le relazioni con gli ultrà della destra di Usa e Regno Unito. Meloni dal canto suo, per coltivarsi i rapporti internazionali coi think tank atlantici, punta ad esempio sull’Aspen Institute: qui approda a inizio 2021. L’anno dopo, boicotta l’alleanza tra i suoi conservatori e i sovranisti di Salvini, avvicinandosi così ai popolari, e tenendo stretti a sé gli alleati polacchi del Pis, che negli stessi mesi – tramite il ruolo di pontiere del presidente Andrzej Duda – saldano ancor di più i legami con gli Usa e godono della loro protezione nelle liti con Bruxelles.
Il vero volto è Trump
È Meloni stessa a dirci che tipo di atlantismo è il suo, e a cosa le serve, quando si trova a Washington per il National Prayer Breakfast di febbraio 2020. «Nel discorso di Trump c’è la difesa dei confini e delle imprese. Negli Usa la difesa dell’identità sta dando ottimi frutti ed è la ricetta che vogliamo portare in Italia. Lo faremo quando finalmente l’Italia avrà un governo di patrioti, e al contempo ottime relazioni internazionali». L’atlantismo meloniano è tuttora quello dei trumpiani, come dimostrano le sue ripetute partecipazioni alla Conservative Political Action Conference, dove sfilano le destre più sfrenate, americane e non: da Orbán ai trumpiani, passando per i paladini del liberismo e delle libere armi come il texano Ted Cruz, annaffiato di soldi dalla lobby delle armi Nra. A febbraio proprio alla Cpac Meloni ribadisce la stessa linea di Trump: condanna l’aggressione russa ma «nessuno mi toglie dalla testa che senza lo scandaloso ritiro delle truppe da Kabul ieri, non avremmo mai visto il tragico assedio di Kiev oggi». Nelle stesse ore, The Donald dichiara: «Il modo in cui gli ucraini stanno combattendo è fantastico, ma se alla Casa Bianca ci fossimo stati noi, e non Biden, tutto questo in Ucraina non sarebbe mai accaduto».
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