I leader che si incontrano a Roma vogliono diventare punti di riferimento della destra estrema nei loro ambiti. La compagine “nazionalista” della premier può trarre profitto dal presidente che ha scosso il Sudamerica
La missione in Italia di un capo di stato argentino non è una novità. Dal ritorno alla democrazia, nel 1983, prima di Javier Milei, hanno fatto tappa in Italia tutti gli inquilini della Casa Rosada, a eccezione di Néstor Kirchner, alle prese, durante il suo mandato, con la durissima crisi politico-istituzionale ed economico-sociale del 2001-2002. Le ragioni delle numerose visite istituzionali, scarsamente ricambiate dai nostri presidenti della Repubblica e del Consiglio, sono varie, hanno origini lontane e giungono sino ai giorni nostri.
Dalla circolazione di idee e pratiche politiche sin dai tempi dell’indipendenza dei territori del Río de la Plata e del nostro Risorgimento ai milioni di migranti italiani che si recarono nel paese rioplatense tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del XX secolo e subito dopo la Seconda guerra mondiale; dalle mire del fascismo – convinto di dover “conquistare” in primo luogo l’Argentina per sviluppare il suo progetto di espansione nella regione – ai rapporti tra gli ambienti politici delle due nazioni nel corso della seconda metà del Novecento.
Per non parlare dei torbidi intrecci che si svilupparono durante gli anni drammatici della dittatura argentina (1976-83) e, di segno completamente opposto – quasi a voler, inconsapevolmente, oscurare abietti personaggi della nostra Prima Repubblica e le manovre della P2 – l’encomiabile lavoro del nostro rappresentante diplomatico a Buenos Aires, Enrico Calamai, teso a fornire protezione e sostegno a coloro che cercavano riparo dalle violenze dei militari. Si potrebbe anche menzionare, per fare un altro esempio ampiamente noto, la figura di Juan Domingo Perón, il “Mussolini argentino” per i neofascisti italo-argentini, personalità esemplare del legame tra Italia e Argentina, leader populista di probabile ascendenza ligure o sarda, che completò la sua formazione militare e politica soggiornando in Italia nei primi anni del Secondo conflitto mondiale.
O, ancora, si potrebbe fare riferimento alla presenza e agli affari in Argentina dei grandi gruppi imprenditoriali italiani, dalla Fiat alla Pirelli, dalla Telecom a Impregilo passando per l’Enel, che hanno prosperato indipendentemente dal governo argentino di turno, che si trattasse di una compagine civile o militare. Ciò a conferma del fatto che l’Italia, come del resto tutte le democrazie occidentali, non ha mai condizionato le relazioni economiche al rispetto dei valori democratici e alla tutela dei diritti umani.
Quindi, i legami tra i due paesi sono sempre stati molto stretti. Nessun presidente argentino o capo del governo italiano ha potuto e può tuttora trascurare questo aspetto strutturale dei rapporti tra le due nazioni. Questo non significa che non si siano mai registrate tensioni nelle relazioni bilaterali. Senza voler andare troppo indietro nel tempo, è sufficiente rammentare la questione della tutela dei risparmiatori italiani in possesso dei titoli del debito pubblico argentino e penalizzati dal default del 2001-2002; incidente che, di fatto, congelò le relazioni italoargentine dal 2004 al 2010.
Le interpretazioni
Qual è allora la novità rispetto al passato più o meno recente? Perché la visita di stato di Milei suscita tanta curiosità e attenzione nei media italiani? La risposta è scontata. Molto lo si deve al presidente argentino, ossia al modo in cui viene percepito e rappresentato all’estero: politico eccentrico, anti casta e anti sistema; ultraliberista a tutto tondo; nemico giurato dei sindacati e demolitore degli interessi consolidati; fautore di un uso molto limitato del denaro pubblico e, al contrario, alfiere delle imprese e dei capitali privati (nazionali o internazionali); campione della lotta agli sperperi, alla corruzione e al malaffare; esponente di punta in questo frangente della destra latinoamericana, con la passione per la riscrittura della storia. Che non sia tutto oro quel che luccica poco importa. Milei si presta a tante di quelle letture che i politici nostrani di centrodestra e giornalisti e opinionisti di area governativa hanno solo l’imbarazzo della scelta.
Tuttavia, l’interesse per la visita che si realizzerà il 12 febbraio scaturisce anche da una possibile intesa tra Milei e Giorgia Meloni, i quali ambiscono a diventare leader dell’ultradestra nei rispettivi scacchieri regionali. A Milei, che sta recitando la parte del novello don Chisciotte in attesa delle elezioni statunitensi – e, magari, dell’avvento al potere di altri compari di ventura latinoamericani – la sponda esterna consentirebbe di uscire dall’isolamento nel quale è confinato al momento nel subcontinente.
A Meloni, l’asse porterebbe in dote un interlocutore nuovo e “immacolato”, in grado di far ombra per un po’ ai suoi tradizionali e attualmente scomodi alleati del Vecchio continente. Non a caso, la presidente del Consiglio, di recente, non ha esitato a dichiarare in una delle tante emittenti ormai allineate all’esecutivo di essere stata la prima leader europea ad aver sentito Milei dopo la vittoria, definendo il nuovo capo di stato argentino «una personalità affascinante».
Opportunità
In sintesi, per Meloni la visita potrebbe dar luogo a un’operazione di maquillage di corto respiro – le elezioni europee di giugno – ma anche incoraggiare un proposito di medio-lungo periodo. Sinora, il governo Meloni, in continuità con i suoi recenti predecessori, ha mostrato scarso interesse per l’America Latina.
Nondimeno, nonostante le differenze tra i due leader, la partnership con l’Argentina di Milei fornirebbe a lei e a Fratelli d’Italia l’opportunità di imbastire relazioni con formazioni della “nuova” destra latinoamericana, mettendo definitivamente in soffitta i “ruggenti” e nostalgici anni del neofascismo del periodo della Guerra fredda. Questa ipotetica intesa, inoltre, nel quadro di una offensiva geopolitica che poggi sulla nazione rioplatense come testa di ponte, aprirebbe le porte di una regione dove, fino a oggi, sono stati i partiti del variegato mondo del centro-sinistra italiano a farla da padroni, grazie ai rapporti intessuti dagli anni Sessanta in poi. Pertanto, si tratterebbe di un’iniziativa che qualcuno potrebbe associare a quella del Ventennio, aggiornata al Ventunesimo secolo, certo su altre basi e con un profilo più basso, ma ugualmente interessante.
Se quanto ho poc’anzi indicato può apparire fantapolitica, la realtà dei fatti dovrebbe suggerire alla presidente del Consiglio Meloni di tenere presente che la settimana prossima si troverà dinanzi il massimo rappresentante della terza economia della regione dopo Brasile e Messico, nonché membro qualificato del Mercosur e del G20. Un capo di stato, peraltro, che ha deciso che l’Argentina non aderirà ai Brics, e che, con la sua politica di apertura economica, potrebbe fornire preziose opportunità per gli interessi italiani. Meloni e la sua compagine “nazionalista” potrebbero, quindi, trarre profitto dall’ultraliberismo di Milei.
E dovrebbero, altresì, ricordarsi che l’ultimo premier italiano a recarsi a Buenos Aires è stato Matteo Renzi, nel febbraio del 2016. Sono seguiti quattro esecutivi e passati otto anni. Un tempo sufficiente per recarsi nuovamente sull’altra sponda dell’Atlantico.
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