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Per capire e spiegare la politica statunitense è necessario un fuoco sul ruolo svolto dal partito presidenziale, definibile come l’organizzazione che ha selezionato e sostenuto il candidato che ha corso sotto le sue insegne e che è successivamente diventato presidente.
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Gli effetti delle elezioni di midterm sono decisivi sia per il duo parlamento-presidenza, ma anche per i rapporti tra il presidente e il suo partito. Il quale potrà beneficiare dell’onda lunga della popolarità della Casa bianca, ovvero essere travolto da un presidente inviso agli elettori.
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Questo articolo si trova nel nuovo numero di SCENARI – il settimanale di geopolitica di Domani, dal 4 novembre in edicola e in digitale.
Per capire e spiegare la politica statunitense è necessario un fuoco sul ruolo svolto dal partito presidenziale, definibile come l’organizzazione che ha selezionato e sostenuto il candidato che ha corso sotto le sue insegne e che è successivamente diventato presidente.
La compagine presidenziale è cruciale in diverse fasi della politica e del processo legislativo. Innanzitutto, nel rapporto tra il presidente e il partito di riferimento in termini di accentramento e guida. La capacità del presidente di occuparsi del partito e il controllo dell’organizzazione possono poi dipendere da diversi elementi: essere o meno il capo del partito, e agire come tale formalmente o sostanzialmente, e infine essere al vertice del partito in parlamento.
Prima, durante, dopo voto
Le interazioni tra il futuro presidente e il partito si dispiegano in almeno tre fasi: prima del voto; durante il voto; dopo il voto. Nel caso statunitense il momento precedente al voto è ormai strutturalmente connesso alle primarie. Durante la procedura che porta alla nomination, il candidato presidenziale può consolidare il rapporto con l’organizzazione partitica, scalarne i vertici o allargare la base di consenso. Per tutti, la drammatica convention di Chicago del 1968 con i democratici lacerati al proprio interno.
Difficilmente un totale outsider riesce a conquistare la vittoria senza essere accettato e sostenuto da una componente importante dell’organizzazione, di suoi eletti nei vari livelli di rappresentanza, e di un’ampia popolarità tra i sostenitori. Il caso di Donald Trump nel 2016 rappresenta una fulgida eccezione che ha avuto significative conseguenze sul rapporto tra il futuro presidente e il suo partito, nel paese e in parlamento. Altri presidenti considerati outsider in passato – Carter, Reagan e Obama – avevano già occupato cariche pubbliche.
Durante la campagna elettorale invece il candidato presidente può rafforzare il controllo sul partito, colmare distanze e carenze sul piano dei rapporti con i maggiorenti dell’organizzazione, estendere il consenso in aree del paese in cui fosse meno rappresentato e conosciuto. La campagna elettorale presidenziale rappresenta una straordinaria opportunità non solo per tentare di vincere le elezioni presidenziali, ma anche per consolidare le relazioni con le differenti anime dell’organizzazione partitica.
Inoltre, considerando la contemporaneità delle elezioni presidenziali e politiche, l’aspirante presidente intesse legami politico-partitici proprio con i futuri parlamentari, la cui fedeltà potrà ricambiare attraverso il sostegno nei rispettivi collegi di Senato e Camera. E in più, proprio in questa logica, le dinamiche e le relazioni del presidente con il parlamento dipendono dalla presenza di maggioranze concordi e unificate nonché, come indicato, dal controllo presidenziale del partito.
Il post voto è la fase ultima, ma non meno importante, in cui si estrinseca il ruolo del presidente nei confronti del partito che ha contribuito a eleggerlo. Il primo ostacolo all’implementazione della sua agenda di governo deriva dalla composizione della maggioranza parlamentare. In presenza di forze politiche diverse per il controllo della Casa bianca e del ramo legislativo, l’azione presidenziale è fortemente condizionata.
Si tratta di un dato e una condizione divenuta quasi strutturale, per varie concomitanti ragioni. Basti considerare che tra il 1861 e il 2020 quasi la metà degli anni di presidenza (45 per cento) sono stati caratterizzati da un governo diviso. Una costante nel panorama politico e istituzionale degli Stati Uniti, in costante ascesa: dal 1945 gli anni di governo in cui il presidente ha dovuto negoziare con un parlamento disomogeneo sono stati pari al 61 per cento; dal 1968, ossia dal periodo immediatamente precedente le riforme delle primarie, il governo diviso ha rappresentato la condizione ordinaria, normale: quasi i tre quarti del tempo considerato è stato gestito dal presidente in una situazione di governo diviso (73 per cento). Nel post Guerra fredda, ad esempio, Bill Clinton tra il 1994 e il 1996 e Barack Obama tra il 2014 e il 2016 hanno guidato il governo con entrambe le Camere controllate dal partito repubblicano; sorte uguale e contraria è capitata a George W. Bush tra il 2006 e il 2008.
Il processo legislativo
Ne deriva che la capacità del presidente di controllare, guidare e condizionare l’azione del proprio partito, sia quando si trovi all’opposizione che quando esprima la maggioranza parlamentare, agisca come fattore cruciale nel processo legislativo. Sia in termini quantitativi che qualitativi.
Tra l’altro, il capo della Casa bianca non detiene poteri di iniziativa legislativa, ma può agire sul processo di formazione delle leggi soltanto in forma negativa, ossia esercitando delle prerogative negative: poteri ostativi quali i veti sulle leggi approvate dal parlamento. Veti che però possono essere superati, sebbene da una maggioranza qualificata.
In questo senso il ricorso ai decreti è certamente efficace nel breve periodo, ma rappresenta in qualche misura l’arma dei deboli, soprattutto allorché il presidente non riesca a “passare in parlamento”, sia per presenza di una maggioranza a lui ostile ovvero per contrasti con il proprio partito.
Il negoziato è l’unica via di fuga non essendo il conflitto componibile per via istituzionale. Le istituzioni separate che condividono il potere non permettono la rimozione presidenziale né, di converso, lo scioglimento anticipato del parlamento. La doppia legittimazione popolare di parlamento e presidenza preclude soluzioni istituzionali a condizioni di conflitto permanente e impone soluzioni negoziali di tipo politico, nelle quali il presidente può decidere di rivolgersi al pubblico (going public) attraverso il suo partito e fare anche direttamente appello ai cittadini per biasimare il comportamento del parlamento a lui eventualmente ostile. Il presidente può intavolare trattative anche con singoli parlamentari (pork barrell) al fine di favorire il processo legislativo per leggi cui sia particolarmente attento.
Gli effetti del midterm
L’assetto istituzionale e costituzionale agisce pesantemente nel rapporto presidente-partito: sia sul piano degli equilibri tra attori, ma anche quanto a esiti elettorali. Le elezioni di metà mandato (midterm) nella logica costituzionale mirano a evitare che la concentrazione dei poteri divenga sistemica e inossidabile, fornendo agli elettori la possibilità – ogni due anni – di mutare gli equilibri attraverso un voto sanzione valutando in retrospettiva l’operato del capo dell’esecutivo in carica.
Gli effetti delle elezioni di midterm sono decisivi sia per il duo parlamento-presidenza, ma anche per i rapporti tra il presidente e il suo partito. Il quale potrà beneficiare dell’onda lunga della popolarità della Casa bianca, ovvero essere travolto da un presidente inviso agli elettori. I candidati al parlamento per il partito presidenziale saranno dunque propensi a scattare foto-opportunity con il presidente in carica per raccogliere i frutti dell’azione dell’amministrazione, oppure tenteranno di evitarne l’accostamento per non subire i contraccolpi del voto contrario. Che storicamente vede il partito del presidente subire una sanzione – più o meno grande – proprio alle elezioni di metà mandato.
Nel caso di Joe Biden, come accaduto a Trump nel 2020, potrebbero generare l’ennesimo governo diviso nelle elezioni prossime di novembre. In questo senso, può essere interessante sottolineare che, storicamente, in sei casi, da Franklin Delano Roosevelt, trentaduesimo presidente degli Stati Uniti, in poi, le elezioni di metà mandato hanno prodotto una condizione di governo diviso. Si tratta delle elezioni del 1946, 1954, 1994, 2006, 2010 e 2018 (e 2022?), a conferma della crescente incidenza del governo diviso nonché della volatilità elettorale e del voto “sanzione” nei confronti del presidente in carica dopo metà del suo mandato.
Contesa continua
La campagna elettorale permanente, dettata dai tempi delle elezioni di metà mandato, la possibilità di scalare il partito attraverso le primarie, e il limite di mandato presidenziale, aprono il sistema partitico e politico a una contesa continua.
Sebbene una volta eletto il presidente non possa essere disarcionato dal parlamento e nemmeno sostituito dal proprio partito, il capo dell’amministrazione dovrà prestare molta attenzione alle dinamiche interne all’organizzazione che lo ha sostenuto per evitare fronde e fazioni interne che potrebbero rallentarne e condizionare l’azione legislativa e, quindi, di governo. Come successo, per ultimo, a Trump che ha dovuto fronteggiare il gruppo dei repubblicani storici (tra gli altri, Mitt Romney, Paul Ryan, Dick Cheney, John McCain, il clan Bush e in parte Mike Pence).
L’astensionismo differenziato, capace cioè di colpire di più il presidente in carica, induce il capo dell’esecutivo a motivare costantemente le truppe del partito e a non lacerare i rapporti con i suoi dirigenti e rappresentanti in parlamento nonché a livello statale. Questo ultimo aspetto è molto rilevante se consideriamo la crescente polarizzazione non solo tra gli elettori democratici e repubblicani, la cui distanza è aumentata molto dagli anni Ottanta e che ha consegnato i rispettivi partiti all’egemonia culturale delle frange più estreme/radicali, ma soprattutto ai mutamenti geografici e demografici.
Dagli anni Novanta è aumentato il numero di circoscrizioni in cui la distanza in voti tra asinello ed elefantino è ormai incolmabile, superiore a 20 punti percentuali, e ciò incide sui rapporti tra presidente e suo partito. Sia per le scelte sul dove e come condurre la campagna elettorale, ma anche circa la capacità di incidere nelle dinamiche federali di interi gruppi nazionali stante la loro forza ovvero la strutturale debolezza.
Secondo Woodrow Wilson il presidente non poteva «non essere anche il leader del suo partito a meno di una sua incapacità o mancanza di forza personale, perché egli è al tempo stesso la scelta del partito e la scelta della nazione; egli può dominare il suo partito facendosi portavoce dell’autentico sentimento e degli autentici obiettivi del paese». I cambiamenti post 1968, le primarie, la campagna elettorale permanente e i mutamenti geografici e demografici hanno messo in crisi questa profezia, rilanciando il ruolo del partito con cui il presidente deve fare i conti.
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