- Dopo anni di maltrattamenti, aggressioni e torture due donne nigeriane hanno fatto ritorno a Lagos dalla Libia, con un volo di rimpatrio volontario.
- Le due donne hanno presentato ricorso contro Italia e Libia al Comitato dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw).
- Al centro del ricorso ci sono: le politiche di cooperazione che bloccano le partenze contribuendo attivamente al mantenimento dei modelli di sfruttamento dei migranti e la mancanza di garanzie sull’utilizzo dei fondi che l’Italia destina all’Oim per i programmi di rimpatrio volontario.
Doris e Princess (nomi di fantasia), sono due donne nigeriane prese nella tratta di esseri umani. Dopo anni di maltrattamenti, aggressioni e torture hanno fatto ritorno a Lagos, in Nigeria, dalla Libia, con un volo di rimpatrio volontario.
Nell’aprile del 2019 sono arrivate al terminal merci dell’aeroporto con un volo commerciale finanziato dall’Unione europea. Le due donne, con il sostegno degli avvocati di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e del network di cliniche legali nigeriane (Nulai), hanno presentato ricorso contro Italia e Libia al Comitato dell’Onu per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (Cedaw).
Al centro del ricorso ci sono due aspetti: da un lato, le politiche di cooperazione tra Italia, Ue e Libia che bloccano le partenze contribuendo attivamente al mantenimento dei modelli di sfruttamento dei migranti. Dall’altro, la mancanza di garanzie sull’utilizzo dei fondi che l’Italia destina all’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) per i programmi di rimpatrio volontario attraverso i quali vengono riportate in Nigeria anche le vittime della tratta.
«Le politiche di blocco delle partenze favoriscono la creazione di un modello economico basato sullo sfruttamento dei migranti in Libia», hanno scritto gli avvocati nel ricorso presentato al Comitato Onu.
I legali sostengono che Italia e Libia hanno violato gli articoli 2 e 6 della Convenzione per i diritti delle donne, che regolano il diritto alla non discriminazione e alla protezione dallo sfruttamento della prostituzione.
Inoltre, continuano gli avvocati, le donne nigeriane sono state sottoposte a una forma di espulsione «mascherata» che le ha esposte a ulteriori rischi una volta ritornate nel paese di origine.
Gli avvocati sostengono che l’Italia è responsabile, da un lato, per l’essenziale sostegno finanziario, logistico e politico fornito alle autorità libiche, senza il quale non sarebbe stata possibile l’implementazione di politiche di blocco e detenzione, ma anche per il finanziamento – con 11 milioni di euro tra il 2017 e il 2020 – dei programmi di rimpatrio eseguiti dall’Oim.
«Le autorità italiane sono consapevoli che attraverso il rimpatrio volontario centinaia di donne vengono riportate in Nigeria senza che sia stata loro offerta un’alternativa di protezione e nonostante ciò hanno continuato a finanziare Oim senza chiedere alcuna garanzia», ribadiscono gli avvocati nel ricorso presentato al Comitato Onu.
Il rimpatrio
Doris e Princess, dopo aver tentato la traversata del Mediterraneo, erano state intercettate dalla Guardia costiera libica e riportate in un centro di detenzione a Tripoli. Nel 2019 hanno deciso di fare ritorno a casa con il programma dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) definito di «rimpatrio volontario umanitario», finanziato dall’Unione europea. Gli avvocati sostengono che è lo stesso elemento della «volontarietà» di tali rimpatri a dover essere messo in discussione, soprattutto quando avvengono dalla Libia o dal Niger.
Dal 2016, infatti, sono aumentati i programmi di ritorno volontario e di reintegrazione in Africa, attuati dall’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) e finanziati sia dall’Unione europea attraverso il Fondo fiduciario d’emergenza per l’Africa, sia da paesi membri – quali l’Italia – tramite il Fondo Africa.
I rimpatri volontari dalla Libia ai paesi d’origine diventano strumenti di gestione della migrazione e si inseriscono in una più ampia strategia di esternalizzazione sponsorizzata dai paesi dell’Ue con il fine ultimo di limitare il più possibile l’arrivo dei migranti in Europa.
Dal 2017 l’Unione europea e i suoi paesi membri – in particolare l’Italia – hanno inaugurato una stagione di rinnovato sostegno alle autorità libiche attraverso un complesso mosaico di accordi, finanziamenti e donazioni.
Degli oltre 95mila migranti che hanno accettato dal 2017 di far ritorno a casa grazie al programma gestito dall’Oim, più di 38mila migranti sono tornati dalla Libia attraverso il programma congiunto Ue-Oim, finanziato anche attraverso il Fondo Africa del ministero degli Affari esteri italiano.
Molti di loro sono reduci da lunghi periodi di detenzione, abusi e violenze nelle mani dei trafficanti e delle milizie. Lo stesso relatore speciale delle Nazioni unite per i diritti dei migranti ha evidenziato come, nella maggior parte dei casi, tali rimpatri non possano considerarsi realmente «volontari»: molti migranti accettano il rimpatrio perché sono in una condizione di detenzione o per assenza di reali alternative.
I finanziamenti europei
«Il rimpatrio non può essere considerato volontario: in primo luogo, non viene proposta nessuna alternativa per uscire dalla detenzione e dallo sfruttamento», dice Giulia Crescini, avvocato di Asgi.
Secondo gli avvocati italiani e nigeriani, i rimpatri volontari sono espulsioni «mascherate». La partecipazione e il sostegno finanziario dell’Italia al programma dell’Oim fa sorgere una serie di dubbi sulle responsabilità italiane e sulle carenze di tutela dei migranti rimpatriati.
Un recente report di Easo, agenzia dell’Ue che opera come centro specializzato in materia di asilo, affronta la situazione del ritorno delle vittime in Nigeria, soprattutto dal punto di vista della loro protezione, le possibilità di sostegno, l’atteggiamento dei familiari delle vittime e delle organizzazioni nei confronti dei rimpatriati: alcune fonti hanno indicato che le vittime tornate dall’estero o dall’Europa sono state costrette a prostituzione forzata nel proprio paese di origine.
Molto spesso sono gli stessi trafficanti che, per assicurarsi il pagamento del debito, costringono le vittime a non collaborare con le autorità. Un operatore di un’organizzazione non governativa di Benin City ha raccontato che «è difficile tenere le donne e le ragazze di ritorno lontane dalle reti che le hanno trafficate (…) molte tornano a prostituirsi, altre sono ancora in contatto con i loro trafficanti».
Sfruttamento e corruzione
Nel 2009, l’ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Unodc) ha stimato in 3.800-5.700 il numero annuo di vittime della tratta a fini sessuali provenienti dall’Africa occidentale.
Nel 2018 la Walk free foundation ha stimato che in Nigeria quasi 1,4 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù, prostituzione, servitù domestica o lavoro forzato e sono a rischio di prelievo di organi.
In Nigeria lo sfruttamento fonda le proprie radici in un sistema complesso dove non solo le organizzazioni criminali ma anche la povertà, la grave condizione femminile all’interno della società e le famiglie hanno un ruolo fondamentale.
«Il rischio di essere nuovamente trafficate una volta tornate in Nigeria non può essere ignorato», dice Odinakaonye Lagi, avvocato delle cliniche legali nigeriane. L’agenzia governativa nigeriana che lavora contro il traffico di persone (Naptip) dovrebbe occuparsi di attività di indagine, persecuzione penale, ritorno e reintegrazione delle vittime di tratta.
In realtà, molte donne sfuggite alla violenza e agli abusi sessuali in Libia, si ritrovano ancora una volta bloccate nel ciclo dello sfruttamento in Nigeria.
Secondo il relatore speciale delle Nazioni unite sulla tratta di esseri umani, i rimpatriati spesso non ricevono alcun tipo di sostegno al loro arrivo, nonostante molti siano stati respinti dalle loro famiglie. Un recente rapporto del dipartimento di Stato americano ha ribadito che la corruzione in Nigeria coinvolge funzionari del governo, magistrati e polizia di frontiera.
La Naptip
Tra il 2018 ed il 2019 è stato avviato un procedimento penale nei confronti di sette funzionari (appartenenti alla Naptip, alle forze di polizia, al servizio di immigrazione e al servizio penitenziario della Nigeria) accusati di essere complici nella tratta di persone. Nessuno di loro è stato condannato.
Nel 2020, solo 33 casi sono stati oggetto di indagine, ma solo 14 di questi sono stati portati in tribunale. Nessun verdetto è stato ancora emesso. Il programma Oim-Ue prevede servizi di assistenza e accoglienza per i migranti rimpatriati, che in Nigeria vengono effettuati in collaborazione con la Commissione nazionale per i rifugiati, i migranti e gli sfollati interni, la Naptip, la National emergency management agency, i servizi sanitari portuali nigeriani e le task force federali contro la tratta di esseri umani.
L’Oim, in collaborazione con Naptip e altre organizzazioni locali, fornisce accesso a programmi speciali di reinserimento, che includono alloggio, formazione, assistenza finanziaria e medica. Un ufficiale che lavora con il Servizio immigrazione nigeriano, che indaga sulle vittime di tratta rimpatriate attraverso i loro account Facebook, ha detto che molte donne vengono nuovamente coinvolte nel traffico di esseri umani nel giro di pochi mesi.
© Riproduzione riservata