- Il riscaldamento globale è stato affrontato dagli Stati in un’ottica sempre più securitaria e militarizzata, con un conseguente aumento delle spese dedicate alla difesa a fronte di investi in politiche di mitigazione del cambiamento climatico tuttora esigui.
- Questo particolare framing della questione ha messo in secondo le azioni volte alla risoluzione del problema, prediligendo invece il rafforzamento degli eserciti, delle agenzie di difesa nazionale e delle azioni di contrasto all’immigrazione.
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Inazione climatica e militarizzazione procedono dunque di pari passo, con conseguenze negative sia per l'ambiente che per le persone, su sui ricadono non solo gli effetti della crisi climatica ma anche quelli della militarizzazione dei confini e del proprio paese.
I cambiamenti climatici sono descritti dai governi come un fattore destabilizzante, portatrici di insicurezza e instabilità degli stati. Ma a rappresentare un pericolo per la tenuta del sistema sociale e politico di un paese sono soprattutto le risposte dei governi alle richieste della popolazione, in particolare di quelle fasce maggiormente interessate dal cambiamento in corso.
La soluzione offerta dai governi non è sempre adeguata, a causa anche della narrazione che viene fatta della crisi climatica stessa. Una narrazione che predilige una chiave di lettura securitaria, utile non tanto a risolvere i problemi già esistenti quanto piuttosto a giustificare un aumento delle spese militari.
A dare il via a questo modo di inquadrare la crisi climatica è stato il dipartimento della Difesa americano, che per primo ha definito il riscaldamento globale come un moltiplicatore delle minacce alla sicurezza dello stato, invitando al rafforzamento delle capacità di intervento delle forze armate. Una simile definizione della questione ha portato a un aumento delle spese militari e al rafforzamento delle frontiere esterne e dei dispositivi di controllo interni, tutti strumenti utili per proteggere l’apparato statale ma poco adatti a far fronte agli effetti della crisi climatica. Gli stati dunque hanno scelto di concentrarsi non tanto sulle politiche per mitigare il riscaldamento globale, quanto su come affrontare gli scenari di maggiore instabilità che potrebbero derivarne, contribuendo paradossalmente alla loro realizzazione.
Nel momento in cui un governo, di fronte alle richieste dei propri cittadini, reagisce con la repressione interna, come successo in Siria nel 2011, crea una situazione di instabilità che rischia di degenerare in un conflitto aperto. La crisi ecologica a cui stiamo assistendo è letta come una minaccia sia interna che esterna a causa delle migrazioni climatiche, ossia di quei flussi di persone provenienti dalle aree del pianeta maggiormente interessate dal riscaldamento globale e che cercano salvezza nel nord del mondo.
Anche in questo caso la risposta dei governi si è tradotta principalmente in un rafforzamento delle frontiere esterne, come si legge nel report del Transnational Institute. I paesi più ricchi, nonché maggiormente responsabili dell’inquinamento del mondo, hanno investito almeno il doppio delle risorse nella militarizzazione dei confini rispetto a quelle destinate al contrasto al cambiamento climatico. A guadagnare dalla costruzione di questo “muro climatico”, ancora una volta, sono le maggiori aziende del campo della difesa e della sicurezza, a cui gli Stati si rivolgono per rendere sempre più impenetrabili le loro frontiere e che incentivano con le proprie operazioni di lobbying una lettura securitaria della crisi climatica.
Per averne una conferma basta considerare che tra il 2006 e il 2021 la spesa negli Stati Uniti per il controllo dei confini è triplicato, mentre i fondi destinati a Frontex sono aumentati del 2.763 percento nello stesso periodo di tempo. Ma il settore della sicurezza è destinato ad accrescere i suoi profitti anche nel prossimo futuro: come riportato sempre dal Tni, nel 2024 si dovrebbero registrare guadagni per almeno 606 miliardi di dollari a fronte dei 431 del 2018, con una crescita annua del 5,8 percento.
Le aziende energetiche
Le imprese che si occupano di difesa e sicurezza nazionale hanno siglato contratti anche con le grandi aziende del settore energetico ed estrattivo, il che genera un cortocircuito logico. Le compagnie a cui gli stati si rivolgono per difendere le proprie frontiere sono le stesse su cui fanno affidamento le compagnie maggiormente responsabili di quella crisi ecologica percepita come una minaccia. Una contraddizione che si ritrova anche nel contesto italiano. Leonardo, azienda a partecipazione statale, ha firmato contratti con Exxon, Chevron, Bp e Royal Dutch Shell, mentre la L3Harris che detiene l’azienda Calzoni si occupa della difesa delle attività estrattive della Exxon in Niger e Nigeria, due paesi che hanno visto un aumento dell’emigrazione proprio a causa dell’inquinamento e dell’impoverimento del proprio territorio. I piani per la sicurezza messi in campo dai governi, dunque, sono poco lungimiranti e in certi casi persino controproducenti.
Il tutto senza mettere in discussione il ruolo delle multinazionali energetiche o del settore militari e della difesa, che vengono invece finanziati dagli Stati per proteggersi da quei flussi di migranti climatici che le stesse politiche nazionali di risposta al riscaldamento globale contribuiscono a generare.
Inazione climatica e militarizzazione procedano così di pari passo, con conseguenze negative sia per l'ambiente che per le persone, che si trovano ad affrontare non solo gli effetti della crisi climatica ma anche quelli derivanti militarizzazione dei confini e del proprio paese.
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