I combattenti filoiraniani rispondono agli attacchi di Washington con azioni militari e minacce. Così una tribù preislamica traghettata nel mondo sciita è diventata una minaccia per il commercio globale
Un missile da crociera contro il cacciatorpediniere “Uss Laboon” – intercettato senza danni – condito da una frase non originalissima, ma che fa sempre il suo effetto: «Lo Yemen sarà la tomba degli americani». Questa è stata la risposta degli Houthi ai recenti bombardamenti della coalizione. Seguita poi da un ulteriore attacco, questa volta riuscito, a una nave mercantile di proprietà Usa battente bandiera delle Marshall Islands.
Una contromisura occidentale inevitabile – e ritardata quanto più possibile – rispetto all’insostenibile pirateria terroristica dei suprematisti sciiti-zaiditi che governano le coste orientali della Porta del Lamento, lo stretto marittimo di Bāb el Mandeb che collega il mar Rosso al golfo di Aden. Si è trattato di una reazione a catena: quando Israele ha invaso la Striscia di Gaza in risposta al brutale eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre scorso contro le comunità del meridione israeliano, gli Houthi hanno giurato vendetta e ritorsioni per imporre all’esercito di Gerusalemme di ritirarsi. I primi missili e droni houthi – forniti con generosità dall’Iran nel corso dell’ultima guerra civile yemenita – hanno preso di mira la città portuale israeliana di Eilat, ma la grande distanza e le antiaeree statunitensi, saudite e israeliane hanno vanificato gli attacchi.
Il giurisperito islamico quarantaquattrenne Abdul-Malik al Houthi detto “Tariqa” che li comanda ha allora ordinato che fossero prese d’assalto le navi mercantili transitanti da e per il canale di Suez, facile preda di elicotteri e motoscafi nel delicato passaggio della Porta del Lamento. Costringendo quasi il 15 per cento del commercio marittimo mondiale a prendere la via lunga della circumnavigazione dell’Africa, gli Houthi sono passati così alla ribalta internazionale. Difficilmente però un europeo ha idea di chi siano davvero, nonostante dovrà presto ringraziare questi estremisti per una rialzata di testa dell’inflazione (una fabbrica belga della Volvo di proprietà della cinese Geely ha già annunciato uno stop alle lavorazioni per il mancato arrivo di merci, ad esempio).
La storia degli Houthi affonda in quella di un’altra tribù preislamica antichissima: i Banū Hamdān adoratori dell’idolo preislamico Yaūq legato alla siccità e tuttora presenti in Yemen. Un gruppo dei Banū Hamdān, pare guidato da Abdullah bin al Sabi detto “Huth”, si trasferì su un altro altopiano dei monti dell’Asyr.
Qui, tra le vette dei “Difficili” che scorrono paralleli al mar Rosso, “Huth” fondò un nuovo villaggio e chi vi abitava prese a essere conosciuto col nome di Huthi. La città di Huth esiste ancora in Yemen, ma le ambizioni del clan omonimo si sono decisamente allargate.
Marginalità come forza
Con l’avvento dell’islam, la posizione marginale degli Houthi li salvò dalle conseguenze di scelte teologiche eterodosse. Nell’VIII secolo adottarono le teorie islamiche militanti e meritocratiche di Zayd al-Ḥusayn ma, quando il califfo omayyade di Damasco smembrò Zayd stesso per estinguerne la ribellione, non riuscì a estirparla da ogni luogo. Gli Houthi si scoprirono troppo remoti persino per i solerti funzionari califfali, e lo zaidismo riuscì a sopravvivere nel loro angolo di mondo. Attraversando le dinastie califfali e l’Impero ottomano conservando una grande autonomia, gli Houthi riuscirono quindi ad autogovernarsi con l’originale formula cesaropapista musulmana dell’imamato. Alla scomparsa dell’egemonia turca il primo imam-re Yahya Muhammad Hamid ed-Din sedette così sul trono Mutawakkilita (il titolo del regnante era al Mutawakkil alà Allāh, “Il confidente in Dio”) di San’a’, un regno che comprendeva tuttavia soltanto le province del nord dello Yemen.
L’imamato sopravvisse in questa forma fino al 1962, quando i rapporti con l’Egitto raggiunsero i minimi storici. Gamal Abd el-Nasser era stato infatti un grande alleato del re-imam Ahmad bin Yahya Hamidaddin, uniti dalla comune lotta per l’eliminazione del Protettorato britannico di Aden nello Yemen del sud.
La natura eccentrica di Hamidaddin aveva però incrinato il rapporto tra i due Stati e, alla sua morte, Nasser lanciò un golpe contro l’erede.
Il risultato furono otto anni di guerra in cui gli egiziani, supportati dall’Unione Sovietica, inviarono persino delle proprie truppe che utilizzarono anche armi chimiche per sconfiggere la guerriglia houthi. Nonostante il paradossale aiuto ricevuto da Arabia Saudita e Regno Unito, l’imamato fu così soppresso nel 1970.
Nasser conseguì dunque una doppia vittoria, visto che Londra aveva già abbandonato Aden nel 1967, sostituita da una repubblica dotata di una costituzione apertamente marxista.
Il nord passò invece a essere governato dal colonnello Ali Abd Allah Saleh, che coltivò negli anni successivi la possibilità di riunificazione, riuscendoci nel 1990 e divenendo il primo presidente dell’intero paese.
Gli Houthi intanto però avvertono sempre più il loro declino e per tentare di contrastarlo nel 1992 fondano il movimento della al Shabāb al Mumin (Gioventù Credente), dedito alla diffusione dello zaidismo tra i giovani.
Due crisi
Questo equilibrio ha un primo scossone durante l’invasione Usa dell’Iraq, nel 2003. Gli Houthi, indignati, scatenano delle proteste dove scandiscono per la prima volta gli slogan anti statunitensi e anti israeliani che diverranno poi parte del loro motto ufficiale: “Dio è sommo, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l’Islam”. Saleh – alleato di Washington – decide di reprimerle, trasformando però le manifestazioni in una vera insurrezione. Per ritorsione uccide il capo degli Houthi, Ḥusayn Badr al-Dīn al-Ḥūthī, ed è questa eliminazione del 2004 che lega indissolubilmente il nome del clan al movimento. Per combattere Saleh i ribelli chiedono aiuto agli sciiti iraniani, dando così inizio a un traffico di armi fiorente tra Teheran e gli zaiditi. Nonostante questo supporto, la superiorità materiale dell’esercito di Saleh obbliga gli Houthi a una tregua dopo altri sette anni di guerra intestina.
Nondimeno, questo nuovo precario equilibrio viene di nuovo sconvolto nel 2011.
La Primavera araba sboccia infatti anche in Yemen e sebbene le proteste popolari costringano il dittatore Saleh (in carica dal 1970) a cedere il potere, permettono anche agli Houthi di avvicinarsi nuovamente alla capitale. Disperato, nel 2015 Saleh decide di fare un patto coi suoi vecchi nemici e lancia un golpe nientemeno che con l’aiuto degli Houthi, i quali sfruttano l’occasione per ritornare definitivamente nelle stanze del potere della capitale San’a’ e dell’esercito.
Sarà lo stesso Saleh, due anni dopo, ad accorgersi del tragico errore che ha compiuto. Un cecchino Houthi, che nel frattempo hanno ribattezzato il loro movimento Anṣār Allāh (Partigiani di Dio) per slegarsi dalla dimensione locale, lo uccide mentre tenta di fuggire dalla capitale. A questo punto agli Huthi non rimane che sconfiggere i nemici esterni. Come risposta al golpe del 2015, una coalizione saudita-emiratina aveva infatti attaccato i suprematisti sciiti-zaiditi per evitare che un alleato dell’Iran prendesse il potere al loro confine meridionale. La campagna di bombardamenti è però pianificata male e condotta peggio, mentre l’utilizzo di mercenari sul campo (spesso africani, tra cui le Rapid Support Forces sudanesi) porta a ben pochi risultati. Anzi gli Houthi riescono persino a bersagliare con missili l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che accettano infine una tregua per uscire da un sanguinoso stallo militare.
Così gli Houthi si ritrovano nuovamente nella condizione di cinquant’anni prima: alla guida del nord dello Yemen. Il sud si trova invece in mano a un Consiglio di transizione di stampo secessionista (memore della tradizione indipendente della zona di Aden) e soltanto l’est del paese è sotto il controllo del governo riconosciuto internazionalmente. Le terre dei signori di San’a’, povere e devastate da guerre continue, si trovano però nella condizione peggiore: gli Houthi infatti hanno istituito nuovamente la pratica di schiavitù nei loro territori – seppur in sordina – e la pianta qat (una droga illegale in Europa) è diffusissima anche tra i ragazzini, che la masticano per i suoi effetti euforici.
Pratiche che li accomunano a un’esperienza mediorientale, le schiave ezide e il captagon, che sarebbe stato meglio se fossero rimaste soltanto relegate alla storia maledetta di Daesh.
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