- Il potere usato dal Qatar per prendersi i mondiali di calcio è il più duro e intimidatorio che esista, capace di fiaccare qualsiasi resistenza molto più di quanto faccia la forza militare: il potere del denaro disponibile in quantità esorbitante.
- Lo sport ha smesso di essere uno strumento di soft power due secoli fa, quando ancora gli sport britannici (calcio, rugby e soprattutto cricket) potevano essere utilizzati come mezzo di acculturazione pacifica dei popoli colonizzati.
- Il Qatar ha voluto un mondiale “nonostante”. Questa è la vera cifra di potere dell’intera operazione, oltre all’intento di costruire una leadership nell’area araba. Quanto alla qatarizzazione, si chieda ai tifosi del Paris Saint Germain quanto sentano di essere sostenitori dell’emirato.
Ma dov’è questo soft power? Bisognerebbe cominciare a chiederlo in giro, rivolgere il quesito a tutti coloro che da mesi usano questo concetto a vanvera e in modo dilettantesco, quando parlano dei mondiali di calcio in Qatar che prenderanno il via domenica 20 novembre.
Si assiste a un esercizio continuato di interpretazioni sul perché e il percome l’emirato abbia deciso di affrontare uno sforzo economico e organizzativo tanto azzardato, a rischio di esporre il paese a una figuraccia internazionale ma ancor più a campagne di comunicazione dal segno negativo riguardo al modello di organizzazione sociale nazionale e al rispetto dei diritti umani sul piano interno. E la risposta a questi interrogativi ha ormai assunto lo statuto di mantra: «È un’operazione di soft power».
Con un utilizzo del concetto di “potere soffice, incruento” che lascia sgomenti per superficialità. E senza la minima capacità di cogliere l’evidenza dei fatti. Ossia, che quello usato dal Qatar è il potere più duro e intimidatorio che esista, capace di piegare ogni resistenza molto più di quanto faccia la forza militare, cui tocca vincere opposizioni strenue mettendo in conto di spargere sangue anche proprio: il potere del denaro, disponibile e mobilitabile in quantità esorbitanti.
Potere di influenza
Il soft power è altra cosa. Si tratta di un concetto coniato e reso popolare dal politologo statunitense Joseph Samuel Nye jr., che al tema ha dedicato un libro dal valore seminale a inizio anni Novanta e una lunga serie di interventi successivi, utili ad affinare il concetto.
Si tratta di un potere d’influenza, esercitato attraverso la diffusione latente e pacifica di visioni del mondo, modelli di comportamento, stili di consumo e singoli oggetti culturali che lentamente cambiano l’immaginario delle popolazioni appartenenti a sfere culturali e paesi diversi.
Il soft power agisce con la logica della conquista dissimulata e incruenta, grazie a una capacità induttiva che diventa implicito consenso verso il sistema culturale da cui parte l’operazione di conquista silenziosa. Un esempio classico di soft power è il processo di americanizzazione che è attecchito nel dopoguerra in Europa grazie alla potenza dell’industria culturale statunitense, da Hollywood alla vasta produzione televisiva e letteraria esportata oltreoceano.
Quel processo si è successivamente esteso ai sistemi di pratiche capaci di ristrutturare le nostre abitudini quotidiane, come nel caso della McDonaldizzazione descritto da George Ritzer. E quanto profondo continui a essere l’agire del soft power americano nel plasmare i nostri stili di vita è dimostrato dal radicamento nel nostro calendario annuale di una tradizione completamente allogena come Halloween. Tutte tracce di un potere egemonico che legittimano sul piano globale un sistema culturale.
Rispetto all’onda vasta dell’americanizzazione possono esser fatti molti altri esempi di soft power dal raggio più o meno esteso: l’influenza dell’industria culturale brasiliana nell’area lusofona e di quella egiziana nell’area del Magreb grazie alla produzione di fiction, l’impatto di più vasta portata dell’industria culturale indiana grazie all’incidenza di Bollywood, il nostro Made in Italy come marchio di qualità universalmente riconosciuto che genera emulazione, l’Hallyu sudcoreano con la sua capacità di seduzione inscindibile dall’idea di cultura esotica, le vaste sfere dell’anglofonia e della francofonia che costituiscono una persistenza degli imperi anche dopo che questi sono stati disarmati.
In tutti i casi che sono stati menzionati, e nei molti altri che avrebbero potuto esserlo, il soft power consiste nell’esportazione di oggetti materiali o immateriali di produzione autoctona e dal forte valore identificante per il sistema culturale esportatore, che grazie a questa operazione ricava una legittimazione implicita e quote di influenza presso le opinioni pubbliche straniere.
Tenuto conto di tutto ciò, in che modo il mondiale del 2022 sarebbe per il Qatar uno strumento di soft power? Soprattutto, c’è davvero possibilità che lo sport sia uno strumento di “potere soffice”? Su quest’ultimo quesito si apre un altro capitolo.
Uno strumento egemonico di due secoli fa
Nella sua natura di oggetto culturale lo sport ha una valenza universale. Sono universali i valori che comunica, le immagini che veicola. E dall’universale si passa al particolare se si guarda alle dinamiche dell’identificazione che esso genera e che rimangono intatte. Ma nella sua origine di fenomeno tipico della modernità lo sport rimane un fenomeno di matrice britannica.
Fu proprio grazie all’uso dello sport fatto dall’impero che si registrarono le prime, ante litteram, manifestazioni di soft power. Quelle di cui parla lo storico britannico J. A. Mangan nel suo fondamentale “The game ethics and imperialism”, nel quale spiega come l’esportazione dei giochi sportivi nelle colonie (calcio, rugby, cricket) sia stato un formidabile strumento di acculturazione e di sostanziale accettazione del sistema culturale colonizzatore.
Ma era un’altra epoca, che precedeva la formazione dello sport come fenomeno culturale globale di massa, fatto a tutte le latitudini oggetto di “appropriazione culturale”. Nella contemporaneità l’uso dello sport può avere valenze strumentali di raggio ben minore. Può essere uno strumento di propaganda, o di negoziazione, o di puro potere. E ospitare una grande manifestazione sportiva dà certamente una visibilità molto elevata, dalla quale è possibile avviare operazioni di ristrutturazione dell’immagine a partire dalla dimostrazione di efficienza organizzativa.
Ma sostenere che essere il paese organizzatore di un campionato del mondo di calcio o un’olimpiade corrisponda a proiettare influenza culturale e collezionare frammenti di egemonia in giro per il mondo significa avere le idee molto confuse sul concetto di soft power e sulla varietà degli usi strumentali che dello sport possono essere fatti.
L’inesistente qatarizzazione
Al pari delle altre potenze emergenti, il Qatar investe in sport perché lo sport è un formidabile strumento di potere e di pressione. Permette di costruire canali di diplomazia politica ed economica, consente l’ingresso nel circuito dei grandi eventi, fa crescere lo status internazionale di un paese.
Per tutti questi motivi si accetta di affrontare l’organizzazione di una grande manifestazione sportiva internazionale. Che è un’impresa a rischio di essere economicamente rovinosa oltreché di rivelarsi un boomerang in termini d’immagine internazionale, come successo al Brasile di metà Anni Dieci con quello sforzo megalomane di organizzare mondiali di calcio e Olimpiadi di Rio de Janeiro nel giro di un biennio.
Al rischio di ritorno d’immagine negativo si è esposto il Qatar, probabilmente calcolandolo. Perché forse la vera cifra politica dell’operazione è proprio questa: organizzare i mondiali “nonostante”. Nonostante l’assenza di tradizione sportiva, nonostante la mancanza di strutture, nonostante la dimensione minuscola del paese (che coi suoi 11.571 chilometri quadrati di estensione è poco più grande dell’Abruzzo), e soprattutto nonostante la consapevolezza dell’aspro dissenso che avrebbe generato presso l’opinione pubblica internazionale per i motivi ormai ampiamente condivisi. Il Qatar ha voluto il mondiale nonostante tutto questo. E proprio in quel “nonostante” sta l’esercizio di potere. Come da frase aneddotica: «C’è chi può e chi non può: io può».
Si tratta di un potere che verrà speso soprattutto verso i paesi dell’area del Golfo e in seconda battuta sull’arabo-sfera. In questo senso, da settimane i quotidiani qatarioti insistono sulla valenza del mondiale di calcio come occasione per veicolare una diversa immagine del mondo arabo sul piano internazionale. Pura propaganda, non soft power. Nel quadro di un’operazione che pone l’emirato al centro della scacchiera del potere regionale.
E poi, ovvio, c’è la dimensione internazionale nella quale il Qatar ha usato il calcio come strumento di esibizione muscolare. Il Paris Saint Germain ne è l’esempio più chiaro. Una società francese decaduta anche in patria e presto trasformata in una potenza del calcio internazionale grazie a indecenti iniezioni di denaro. E tuttavia, a proposito di soft power, chiedete ai tifosi del Psg quanti fra loro si sentano “qatarizzati”.
Scoprirete che forse sono i primi a mal sopportare lo stile proprietario dell’emirato, e che lo accettano in applicazione di una gelida logica strumentale da rapporto mecenatistico: finché si vince ce la facciamo piacere, ma se le cose cominciano a andare male si parte con le contestazioni. Del resto, proprio in Francia si sono avute mobilitazioni fra le più agguerrite contro Qatar 2022. Davanti alle quali gli emissari parigini dell’emirato fanno spallucce. Il loro è un potere duro e assoluto, il dissenso anche vasto fa parte del pacchetto.
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