- Il Marocco è la prima nazionale araba e africana a essersi qualificata per le semifinali dei Mondiali, un orizzonte che sembrava irraggiungibile per l’Africa calcistica.
- Ora l’ultimo ostacolo da superare per accedere a una storica finale si chiama Francia. Una sfida post coloniale e decoloniale in cui entrambe le squadre sono composte principalmente da calciatori figli di immigrati.
- L’uscita dal tunnel dell’anonimato del Marocco è un’occasione per le comunità marocchine del mondo di urlare “presente” e abbandonare i margini di società che li riconoscono a fatica come parte integrante del proprio tessuto sociale.
Il Marocco è la prima nazionale araba e africana a essersi qualificata per le semifinali dei Mondiali, un orizzonte che sembrava irraggiungibile per l’Africa calcistica. Ora, l’ultimo ostacolo da superare per accedere a una storica finale si chiama Francia.
La sfida contro i campioni del mondo in carica è stata descritta da più parti come una gara di stampo coloniale in cui ad affrontarsi sono l’ex colonia e lo stato colonizzatore. Tra il periodo dell’occupazione e quello immediatamente successivo del protettorato, infatti, la Francia si è insediata in Marocco per quasi cinquant’anni dal 1907 al 1956, anno in cui il paese maghrebino ha ottenuto l’indipendenza.
Le stesse lenti erano state adottate per leggere le partite contro Spagna e Portogallo, altri due stati che in passato hanno occupato il Marocco. Se da un lato è innegabile che nel continente africano permangano forme di sfruttamento economico e, nel caso del calcio, di tratta di esseri umani mascherate da aiuti allo sviluppo del talento locale che riportano alla mente l’epoca coloniale, dall’altro è necessario dare uno sguardo più approfondito al contesto specifico di queste due nazionali.
Figli di immigrati
Come ha sottolineato su Twitter la scrittrice e ricercatrice Igiaba Scego, Francia-Marocco assomiglia più a una partita post coloniale e decoloniale in cui entrambe le squadre sono composte principalmente da calciatori figli di immigrati.
Diciotto dei ventisei convocati dal ct francese Didier Deschamps hanno origini africane e centroamericane, recenti o lontane. Uno di loro, Matteo Guendouzi, è figlio di padre marocchino. Nella rosa di Walid Regragui, invece, sedici calciatori sono nati e/o cresciuti al di fuori dei confini nazionali. Anche in Italia, come l’attaccante del Bari Walid Cheddira, originario di Loreto.
Uno sguardo più approfondito va dato anche alle relazioni tra i due paesi che queste nazionali rappresentano. A dispetto del passato, le élite economiche di Francia e Marocco mantengono una solida relazione.
Nel conflitto tra Marocco e Algeria, la Francia ha sempre avuto una sottile preferenza per il primo, anche se i rapporti tra i due governi si sono leggermente incrinati negli ultimi tempi a causa delle pressioni che il Marocco sta esercitando sul governo francese affinché riconosca il Sahara occidentale come territorio marocchino.
Una vicenda che, tra l’altro, rende poco credibile il ruolo di paese paladino dell’anti colonialismo assegnato al Marocco. Naturalmente, a queste discussioni non partecipa il popolo. I cittadini comuni si fanno portatori di visioni e interpretazioni differenti rispetto al legame tra i due paesi e alla partita. C’è chi condivide la lettura coloniale e chi se ne distanzia.
L’importanza delle radici
Tornando al calcio e ai trionfi del Marocco, ciò su cui tutti concordano è l’importanza sociale che il cammino della nazionale ai Mondiali sta rivestendo per i marocchini, ovunque essi vivano e a prescindere dall’avversario in campo.
A più riprese tutti i calciatori marocchini, specialmente coloro che sono nati e cresciuti altrove, hanno rivelato di sentire sempre dentro di sé una fiamma che arde per il Marocco e che, in fondo, rappresentare la nazionale dei “leoni dell’Atlante” è sempre stata la loro prima opzione.
Questo sentimento apparentemente indistruttibile è dovuto al lavoro quotidiano delle famiglie di questi ragazzi per far sì che le radici marocchine crescano all’interno dei propri figli nonostante la distanza. Radici che nell’ultimo mese la comunità italo-marocchina e tutte le diaspore presenti su suolo europeo e oltre stanno rivendicando con orgoglio.
I successi della nazionale sono anche i loro successi. L’uscita dal tunnel dell’anonimato del Marocco è un’occasione per loro di urlare “presente” e abbandonare i margini di società che li riconoscono a fatica come parte integrante del proprio tessuto sociale.
Questo è molto evidente in Italia, dove dopo i festeggiamenti per le vittorie dei turni precedenti in troppi si sono chiesti da dove venissero e cosa facessero nel nostro paese così tanti marocchini come se fossero spuntati fuori dal nulla. In definitiva, il messaggio che il ct Regragui, nato in Francia da genitori marocchini, sta lanciando è che è giunta l’ora per il Marocco, e più in generale per il continente africano e tutto il mondo arabo, di alzarsi in piedi e riscattarsi.
E, volenti o nolenti, non c’è luogo più suggestivo di un campo da calcio, inserito nella cornice della Coppa del mondo, per portare a compimento questa missione, come l’ha definita Regragui nella conferenza stampa precedente alla semifinale contro la Francia. «Abbiamo un’opportunità e non vogliamo sprecarla», ha precisato. «Non vogliamo aspettare altri quarant’anni per crearne un’altra. Ci sono momenti in cui devi marcare il tuo territorio e il nostro momento è adesso».
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