- Il disimpegno americano e il fallimento dell’occidente in Afghanistan aprono un nuovo scenario geopolitico in cui Cina, Turchia e Russia assumono un ruolo sempre più significativo.
- A quanto pare il governo russo ritiene che vi siano maggiori possibilità di negoziazione con il governo dei Talebani rispetto a quello precedente, come sembrerebbero confermare le parole di Kabulov, l’inviato presidenziale russo in Afghanistan, dopo l’incontro «positivo e costruttivo» con il rappresentante dei Talebani e il dialogo ininterrotto degli «studiosi del Corano» con il Cremlino dal 2017.
- Certamente la politica estera russa sta affrontando una delle fasi più delicate dell’era putiniana: impegnata su molteplici fronti (Siria, Ucraina, Bielorussia, Nagorno-Karabakh, Africa…) la Russia non rinuncerà a partecipare da protagonista al “nuovo disordine mondiale”.
Il disimpegno americano e il fallimento dell’occidente in Afghanistan aprono un nuovo scenario geopolitico in cui Cina, Turchia e Russia assumono un ruolo sempre più significativo, costellato da opportunità economiche e ambizioni internazionali, ma non privo di rischi e trappole che storicamente hanno sempre determinato la “tomba degli Imperi” in quel territorio.
Prudenza e pragmatismo sono alla base delle dichiarazioni e delle scelte sinora attuate dalle principali autorità russe.
L’ambasciatore russo a Kabul, Dmitrij Zhirnov, ha affermato che non ci sono motivi per ridurre il personale dell’ambasciata che è già stata «messa sotto protezione» dai Talebani mentre l’inviato presidenziale russo per l’Afghanistan, Zamir Kabulov, ha precisato che la situazione a Kabul si sta stabilizzando anche con il «ripristino dell’ordine pubblico».
Ostilità verso Ghani
Inoltre, Kabulov ha espresso un giudizio negativo sulla fuga del presidente Ashfar Ghani che ha cercato di portare con sé circa cinque milioni di euro: «Ghani è stato eletto in maniera dubbia, ha governato male e ha concluso vergognosamente».
A quanto pare il governo russo ritiene che vi siano maggiori possibilità di negoziazione con il governo dei Talebani rispetto a quello precedente, come sembrerebbero confermare le parole di Kabulov dopo l’incontro «positivo e costruttivo» con il rappresentante dei Talebani e il dialogo ininterrotto degli «studiosi del Corano» con il Cremlino dal 2017. I Talebani dichiarano di apprezzare «la posizione neutrale della Russia», il suo ruolo positivo e importante per aiutare il «popolo afghano che ha sofferto molteplici guerre distruttive».
Da mesi il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, avverte che «la crisi in Afghanistan può esacerbare la minaccia terroristica e il problema del traffico illegale di droga che ha raggiunto una portata senza precedenti. Ci sono rischi reali di instabilità che possono ricadere sui paesi vicini». Con tono sarcastico, il ministro Lavrov si è detto, invece, sorpreso della velocità con cui i Talebani hanno occupato Kabul perché l’esercito era stato «preparato» dagli americani e ha criticato il ritiro troppo rapido degli Stati Uniti.
Problemi di opportunità
Ma c’è un punto che merita di essere sottolineato. In Russia i Talebani sono considerati un’organizzazione terroristica, al pari di al Qaeda e dell’Isis. Come giustificare il dialogo con i rappresentanti talebani? La risposta sta proprio nelle parole di Lavrov che sottolinea come l’interazione e la negoziazione stia avvenendo solamente con i Talebani che «hanno un ufficio politico comunemente riconosciuto». Per questo motivo il Cremlino non ha alcuna fretta di riconoscere le nuove autorità perché saranno valutate «sulla base del loro comportamento» che dovrà garantire il rispetto dei diritti umani, un governo inclusivo, la lotta contro il traffico di droga e il terrorismo. La Russia, infatti, condivide con la Cina il timore di infiltrazioni terroristiche nei propri territori e ritiene prioritaria la stabilità dell’area per evitare ripercussioni sulle repubbliche dell’Asia centrale, l’Uzbekistan e il Tagikistan in particolare.
Sulla questione afghana è intervenuto anche Michail Gorbaciov, che nel 1989 aveva definito il ritiro delle truppe sovietiche come «una ferita sanguinante» per l’Urss, sostenendo che «il fallimento doveva essere riconosciuto prima» e che ora bisogna evitare «di commettere i medesimi errori».
Ricordo indelebile
E proprio l’Afghanistan sovietico rappresenta un ricordo indelebile con il quale si continuano a fare i conti dal punto di vista sociale, culturale e storico. Ne sono una dimostrazione le drammatiche testimonianze degli “afgantsy”, i veterani della guerra decennale, e alcune pellicole come Cargo 200, Bratsvo e La nona compagnia le cui immagini cruente sono ancora impresse nell’opinione pubblica russa che non sarebbe pronta a un ulteriore intervento militare nel territorio afgano.
Certamente la politica estera russa sta affrontando una delle fasi più delicate dell’era putiniana: impegnata su molteplici fronti (Siria, Ucraina, Bielorussia, Nagorno-Karabakh, Africa…) la Russia non rinuncerà a partecipare da protagonista al “nuovo disordine mondiale”, ma gli effetti socio-economici della pandemia e le prevedibili reazioni di protesta che si verificheranno alle elezioni parlamentari di settembre non consentono di avere ampi margini di manovra e di investimento nella questione afghana.
In attesa di ulteriori eventi che consentiranno al presidente Putin di delineare una strategia più puntuale, resta alla storia il suo ammonimento alla Conferenza sulla sicurezza internazionale di Monaco del febbraio 2007. In quell’occasione Putin attaccò coloro che «ci insegnano la democrazia, ma non vogliono impararla» e accusò gli Stati Uniti di aver distrutto il sistema di sicurezza internazionale. Più che di un’avanzata dei regimi illiberali siamo dinnanzi a una crisi sistemica di quelli liberali. A quando una costruttiva e seria autocritica dell’occidente?
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