Due guerre non solo dimenticate ma addirittura misconosciute: Myanmar (l’antica Birmania) e Haiti. Di quest’ultima si è sentito parlare un poco ultimamente grazie alle interviste rilasciate da uno dei capi delle gang che hanno in pugno il paese, Jimmy Cherizier detto Barbecue.

Il Myanmar invece sfugge alle cronache anche in Asia. Si tratta di una guerra civile a porte chiuse. L’offensiva dei ribelli che ha messo in fuga l’esercito dalla regione del nord-est del paese rappresenta una minaccia esistenziale per la giunta militare al potere da circa tre anni grazie al golpe del 2021.

Sembrava che nulla potesse fermare l’esercito che invece si rivela fragilissimo malgrado le sue brutalità. Nel corso del 2023 le forze della resistenza, rafforzate dalle proteste popolari dopo il putsch, hanno moltiplicato attacchi e imboscate nelle aree interne del paese.

Attacchi sempre più ampi

L’esercito del Myanmar continua ad utilizzare attacchi aerei, artiglieria e bombardamenti indiscriminati per sedare le rivolte, usando un atteggiamento punitivo verso la popolazione civile accusata nemmeno tanto implicitamente di sostenere i ribelli. Malgrado tale dispiegamento di forze, Tatmadaw (questo è il nome con cui si chiama l’esercito) si è dovuto ritirare da diverse aree.

La cosa più grave per i militari è aver dovuto prendere di mira anche l’etnia maggioritaria Bamar e non solo i gruppi etnici minoritari degli altipiani in regioni come Kachin, Shan, Rakhine e Kayin. Ciò significa che il regime è in difficoltà crescenti con tutta la popolazione.

Oltre la crisi coi rohingyas per la quale l’esercito birmano è stato accusato di genocidio e crimini contro l’umanità, ora i militari si trovano contro gran parte della popolazione, incluso quel ceto da cui provengono gli stessi alti gradi militari.

Il Myanmar ha frontiere porose e complesse, con continue contaminazioni con i vicini (primi fra tutti i cinesi) e molte minoranze etniche interne (se ne contano 130) come i karen, i chin o i jinpo (mentre i rohingya non sono considerati nemmeno cittadini ma stranieri apolidi).

Il paese è un’unione tra sette regioni (chiamate Burma Proper o Birmania propriamente detta) e sette “stati” in rappresentanza delle minoranze. La struttura è federale e l’esigenza di badare continuamente a rafforzare il collante collettivo è molto sentita da ogni birmano. Uno dei temi unitari dell’unità nazionale è la religione buddista, condivisa da quasi il 90 per cento della popolazione (mentre il 6 per cento è cristiano e il 4 per cento musulmano).

In tale articolazione allo stesso tempo fragile e complessa, l’esercito ha giocato per decenni (fin dal 1962 con poche parentesi) un ruolo cruciale incarnando lo spirito nazionale. La democrazia sostenuta dall’occidente e rappresentata da Aung San Suu Kyi, ha anch’essa una tradizione: il padre, il generale Aung San, fu il primo premier indipendente del paese, un militare che negoziò e ottenne la libertà dai britannici.

Fu ucciso pochi anni dopo da un oppositore interno e da quel giorno la famiglia raffigura l’unica alternativa ai regimi dispotici successivi. Nel 2021 i vari gruppi armati delle minoranze avevano reagito in modi diversi al colpo di stato, sia aumentando la sfida militare al regime, che alleandosi nel National Unity Government (Nug), un governo ombra in esilio dove siede anche il partito di Aung San Suu Kyi, nuovamente imprigionata.

Il rapporto con la Cina

Altri ancora erano rimasti ai margini in attesa degli eventi, rispettando un cessate il fuoco con l’esercito. Ma l’offensiva dei gruppi nord-orientali ha rimescolato tutte le carte. Si è formata una coalizione di tre gruppi armati etnici, la “Three Brotherhood Alliance”, insieme ad altre forze minori della resistenza, che ha conquistato diverse città, occupato varie posizioni militari, catturato carri armati e armi pesanti e interrotto le rotte le commerciali con la Cina.

Avvertendo un certo malessere interno all’esercito causato dalle massicce proteste di piazza anti-regime, i ribelli etnici sono passati all’attacco prendendo il controllo di posti di confine in diverse aree a nord-est del paese. Per ora Pechino, che ha diversi contenziosi aperti con il regime militare birmano, in particolare sul contrabbando e la cybersecurity, è rimasta a guardare mentre le forze della Brotherhood Alliance catturavano quasi tutta la regione.

Xi Jinping pare ancora irritato per non essere stato informato del golpe del 2021 che impedì di portare avanti i megaprogetti pianificati dalla Cina in Myanmar, in particolare la possibilità di bypassare il collo di bottiglia dello Stretto di Malacca.

Ora tutta la rete immaginata di porti, corridoi e pipelines è stata bloccata. Dal canto suo nei dieci anni di governo Aung San Suu Kyi aveva instaurato buoni rapporti di lavoro con Pechino. D’altronde è noto quanto il leader attuale della giunta, generale Min Aung Hlaing, non sia particolarmente filo-cinese. Da qui il sostegno indiretto di Pechino ai gruppi armati etnici nel nord-est del Myanmar. Tuttavia la Cina considera il NUG in esilio una creazione occidentale e potrebbe cambiare posizione.

Per ora la giunta militare sembra destinata a resistere. Mentre molti Bamar mostrano simpatia per le minoranze a causa della brutalità dell’esercito, è improbabile che i numerosi gruppi armati etnici riescano ad occupare tutto il paese, unendosi alle forze di resistenza anti-golpe.

Il colpo di stato ha fatto regredire il paese: i sistemi sanitari e di istruzione sono crollati, il tasso di povertà è risalito e la valuta è crollata. Oltre 2,5 milioni di persone sono sfollate all’interno del paese (oltre alle centinaia di migliaia di rohingya espulsi dall’esercito nel 2017). La guerra continua ed è difficile intravvederne la fine. 

Il caos nei Caraibi

EPA

Ad Haiti sono arrivati i poliziotti e militari del Kenya in un ultimo disperato tentativo di riportare l’ordine nel caos. Gli haitiani sperano che le forze straniere affrontino le gang molto violente che negli ultimi anni hanno fatto a pezzi il paese e preso il controllo della capitale Port-au-Prince. Si tratta di gruppi pesantemente armati che si nascondono nella fitta baraccopoli che cinge il centro città.

Dall’uccisione del presidente Jovenel Moïse nel luglio 2021, la violenza delle gang è aumentata a dismisura. Le brutali guerre territoriali (le bande armate si combattono anche tra loro, oltre che contro le forze dell’ordine ridotte ormai al lumicino) hanno costretto decine di migliaia di civili ad abbandonare le proprie case cercando rifugio in campi profughi improvvisati.

Attualmente quasi la metà della popolazione di Haiti – cioè circa cinque milioni di persone – ha bisogno di aiuti umanitari urgenti per sopravvivere. La guerra è intestina: gang di vario tipo contro gruppi di vigilantes (i Bwa Kale, “legno sbucciato” che in creolo ha il significato di giustizia sommaria) altrettanto violenti. Assassini e linciaggi sono all’ordine del giorno e non si sa quante siano le vittime dall’inizio di questa discesa agli inferi haitiana iniziata con il devastante terremoto del 2010.

Il mandato della missione keniana è di aiutare la polizia haitiana la quale a sua volta è corrotta o senza mezzi. Una precedente missione militare sotto comando brasiliano (2004-2017) non andò a buon fine. L’idea è di creare le condizioni minime per le nuove elezioni che diano come risultato un potere legittimo. Anche la politica haitiana rappresenta un ostacolo.

Un gruppo influente di partiti politici e associazioni della società civile hanno formato un’amministrazione di transizione oggi diretta dal premier Garry Conille ma non si vede come tale governance possa riuscire ad avere un impatto e cioè un qualche simulacro di autorità.

Senza un consenso trasversale sulla composizione del governo haitiano o sul ruolo della forza guidata dal Kenya, la missione rischia di cadere ostaggio delle violente lotte intestine haitiane allontanando ancor più l’uscita della crisi. Haiti rappresenta l’esempio di cosa può diventare un paese quando la sicurezza e l’ordine pubblico cadono nelle mani di gruppi armati e vengono totalmente privatizzati, abbandonando la popolazione prigioniera dei più violenti e di chi è più armato. Il Kivu ad esempio, rischia di fare la medesima fine. 

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