- Secondo la Assistance Association for Political Prisoners, negli ultimi due anni quasi 3.000 persone sono state uccise e circa 13.000 si trovano ancora in carcere, presumibilmente in condizioni di assoluta precarietà.
- Poco prima che il 2022 si chiudesse, Aung San Suu Kyi è stata condannata per altri cinque capi di imputazione: la Lady dovrà quindi trascorrere i prossimi 33 anni in galera
- Il 4 gennaio, il generale Min Aung Hlaing ha annunciato l’indizione di una nuova tornata elettorale, prevista per il prossimo agosto
In Myanmar sono trascorsi ormai quasi due anni da quando, all’alba del primo febbraio, i militari, guidati dal generale Min Aung Hlaing, si sono impossessati del potere attraverso un ignobile colpo di stato, formalmente giustificato dal fatto che le elezioni del novembre 2020 – da cui era emersa una schiacciante vittoria dalle Lega Nazionale per la Democrazia – fossero state viziate da brogli, peraltro mai rilevati dagli osservatori elettorali indipendenti.
In realtà, l’obiettivo era quello di negare ad Aung San Suu Kyi e al suo partito di governare il paese ponendo i militari ai margini della vita istituzionale.
Oltraggiati dalla sovversione del risultato scaturito dalle urne – dopo un solo decennio dall’inizio di un flebile e quanto meno tortuoso processo di transizione alla democrazia – e profondamente indignati dalle violenze perpetrate dai militari ai danni della popolazione inerme immediatamente dopo il colpo di stato, i cittadini birmani hanno provato ad appropriarsi del proprio destino.
Moltissimi hanno incrociato le braccia invocando un lungo sciopero, paralizzando gran parte delle attività del paese e rifugiandosi, al contempo, sotto l’ombrello protettivo approntato dal neonato Governo di Unità Nazionale – istituito in opposizione ai militari da attivisti, leader delle varie etnie e da quei politici che, pur risultando eletti, non hanno potuto sedere in parlamento a causa del golpe – che ha preso a offrire servizi scolastici e sanitari alternativi a quelli statali.
Altri hanno invece preferito imbracciare le armi contro i soldati, malgrado l’assenza di qualunque preparazione militare, unendosi ai numerosi gruppi etnici armati o alle Forze Popolari di Difesa, una nuova milizia civile.
La repressione
La reazione di Min Aung Hlaing, ossessionato dalla necessità di dare consolidamento al nuovo assetto politico, è stata spietata.
I militari hanno ripreso le esecuzioni politiche e hanno dato alle fiamme interi villaggi, oltre a bombardare scuole e ospedali: insomma, un eccidio vero e proprio se si pensa che – stando alle stime della locale Assistance Association for Political Prisoners – negli ultimi due anni quasi 3.000 persone sono state uccise e circa 13.000 si trovano ancora in carcere, presumibilmente in condizioni di assoluta precarietà.
A peggiorare le cose, il regime ha deciso di ripristinare la pena capitale, dopo decenni di sospensione, come strumento atto a scoraggiare l’opposizione civile: quattro giovani attivisti sono stati impiccati nel luglio 2022, mentre altri dieci – tra cui sette studenti membri dell’Unione studentesca dell’Università di Dagon, accusati del presunto coinvolgimento nell’omicidio di un funzionario militare – sono in attesa di essere giustiziati.
Fermare Aung San Suu Kyi
Poco prima che il 2022 si chiudesse, Aung San Suu Kyi, già deposta a seguito del golpe e posta in arresto per reati che vanno dall'istigazione, violazione delle restrizioni Covid-19, possesso illegale di apparecchiature radio, violazione della legge sui segreti di stato, accuse multiple di corruzione e manovre illecite atte a influenzare vari funzionari elettorali, è stata condannata per altri cinque capi di imputazione, che vanno dal suo contratto di locazione all'uso di un elicottero mentre era la leader de facto del paese, e incarcerata per ulteriori sette anni.
In tutto, quindi, la Lady dovrà trascorrere i prossimi 33 anni in galera. Ciò pone fine a una maratona di processi a carico della principale esponente dell’opposizione etichettati dall’opinione pubblica internazionale come una vera e propria farsa.
Le condanne inflitte ad Aung San Suu Kyi sono da considerarsi come un ottimo espediente usato dai militari per eliminare definitivamente dal quadro politico nazionale il principale avversario in vista di nuove elezioni.
Le nuove elezioni
Il 4 gennaio scorso, durante una cerimonia tenutasi nella capitale Naypyidaw in occasione del 75° anniversario dell'indipendenza del Myanmar dalla Gran Bretagna, Min Aung Hlaing ha annunciato l’indizione di una nuova tornata elettorale, prevista per il prossimo agosto, esortando il popolo birmano e il resto del mondo a sostenere questo importante passaggio, descritto come un passo importante verso quello che l'establishment militare definisce «il sistema democratico multipartitico genuino e disciplinato».
In realtà, il riferimento di Min Aung Hlaing mira a situare le controverse elezioni nel contesto della Roadmap pubblicata dalla giunta militare nel 2003, in base alla quale è stata redatta la Costituzione del 2008 e che ha guidato la limitata apertura politica ed economica del decennio precedente al colpo di stato del 2021.
Il regime sta cercando di convincere parte dell’opinione pubblica internazionale dell’esistenza di un progetto preciso, che passa attraverso nuove consultazioni elettorali, volto a restituire al paese una condizione di stabilità e normalità.
Tutto ciò è altamente improbabile, visto che, negli ultimi due anni, il paese ha visto emergere un’ampia coalizione di gruppi di resistenza – tra cui il Governo di Unità Nazionale – e dozzine di organizzazioni schieratesi a difesa della popolazione che non accetterebbero in alcun caso la legittimazione del potere dei militari attraverso il ricorso alle urne.
Il golpe del 2021, in aggiunta, ha esacerbato i conflitti tra il governo centrale – che controlla un mero 17 per cento del paese, riassumibile principalmente alle grandi città – e il largo fronte di organizzazioni etniche armate sparpagliate nel resto del territorio birmano.
Ciò, naturalmente, rischia di rendere una nuova consultazione elettorale, già di per sé delegittimata agli occhi della gran parte della popolazione, un esercizio territorialmente circoscritto.
Sarebbe auspicabile che la comunità internazionale – a parte naturalmente Cina e Russia, che, oltre alla fornitura di armi costituiscono anche un valido scudo diplomatico per il regime birmano presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite – si opponesse con forza a questa ennesima macchinazione del regime, che potrebbe facilmente trasformarsi in un bagno di sangue.
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