«Siamo nella Terra Santa e non c’è mai pace, non ha senso. Tutti vogliono il loro spazio». Sami ha poco più di trent’anni, i capelli tirati indietro con molto gel e un crocefisso dorato al collo. Inizia a parlare mentre siamo in fila al checkpoint che separa Gerusalemme da Betlemme.

Ripete che siamo fortunati perché oggi il traffico scorre veloce e i controlli non sembrano rigidi. «Saranno più lunghi quando rientreremo a Gerusalemme. Gli interessa più chi entra e non chi esce», continua Sami. «Ogni volta mi fanno scendere dalla macchina, controllano il baule, i sedili posteriori, perdo molto tempo». Ed è quello che accadrà, diverse ore dopo questo primo viaggio in auto.

Arriviamo a Betlemme che la luce è quella che tende al rosso di metà pomeriggio. Si prepara il tramonto. Sulla terrazza che dà le spalle a piazza della Mangiatoia, dove si trova la basilica della Natività spicca un Gesù Bambino enorme dentro una teca e accanto è parcheggiata la jeep scoperta che accompagnò il viaggio di Papa Francesco in Terra Santa nel maggio del 2014.

Dieci anni dopo, Betlemme ha perso quasi ogni traccia del Natale. Per vedere un Babbo Natale bisogna addentrarsi nelle strade che circondano la basilica. Un ragazzo in strada vende palloni colorati, niente cappelli natalizi, niente Babbi Natale in miniatura, niente addobbi di nessun tipo. Ma quello che manca più di ogni cosa è il grande albero di Natale di oltre dieci metri e centinaia di luci e palline che ogni anno veniva acceso davanti alla basilica insieme a migliaia di persone arrivate per l’occasione.

Tanti turisti, ma anche cristiani e musulmani insieme. Rappresentanti istituzionali, diplomatici e del mondo religioso. Un momento che sanciva l’inizio ufficiale delle festività e da cui sono stati spesso lanciati appelli per la pace. Perché in fondo, Natale è prima di tutto una festa per condividere e vivere, se possibile, un momento di serenità. È la festa, per eccellenza, soprattutto dei bambini e le bambine. L’ultima volta in cui a Betlemme l’albero è stato acceso era il 2022.

«Per il secondo anno di fila la comunità cristiana in Terra Santa si appresta a celebrare il Natale in un clima di tensione, di tristezza e di cordoglio per tutte le vittime che ci sono state negli ultimi 14 mesi», commenta Luigi Bisceglia, che vive da oltre dieci anni a Gerusalemme, dove lavora come coordinatore regionale programmi del Vis per il Medio Oriente e professore universitario.

«La comunità cristiana ha deciso per il secondo anno di mantenere un bassissimo profilo, di non addobbare le città, con le luminarie, gli alberi di Natale, di non organizzare i mercatini di Natale. Non è prevista nessuna attività in rispetto e in lutto per tutte le vittime». Sono oltre quarantacinquemila quelle dichiarate dal ministero della Salute di Gaza, dal 7 ottobre 2023, dopo l’attacco di Hamas in Israele. Più della metà sono donne e bambini.

Barriera di cemento

Basilica della Natività, Betlemme

Mentre camminiamo è impossibile non notare le serrande abbassate dei negozi e degli artigiani, così come gli ingressi degli hotel al buio. Se dal centro della piazza della basilica si guarda il cielo si ritaglia un quadrato perfetto, sembra quello dentro cui la città è perimetrata. Quello i cui confini sono delimitati dal muro della separazione, o della vergogna, come viene anche definito da quando è stato costruito nel 2002, per oltre 700 chilometri.

La barriera di cemento armato che separa Betlemme e la Cisgiordania da Israele e che costringe ogni giorno almeno centocinquantamila palestinesi ad attraversarla per andare al lavoro in Israele. Ma dal 7 ottobre 2023 non accade più perché i permessi per gli spostamenti dei palestinesi in Cisgiordania sono stati annullati dal governo israeliano (fatta eccezione per alcuni cristiani che hanno ottenuto due settimane di lasciapassare per le festività religiose) e tutte queste persone (circa 300mila, secondo le Nazioni Unite) hanno perso il lavoro e quindi lo stipendio.

Betlemme nelle ore che preannunciano il Natale resiste. Ma la città simbolo per eccellenza di vita e per la tradizione cristiana custodia della nascita di Gesù Cristo ha perso almeno la metà delle attività commerciali presenti. E della sua gente.

«Questa comunità cristiana è piccola e diventerà sempre più piccola», continua Bisceglia mentre attraversiamo l’ingresso deserto della basilica. «Le famiglie cristiane palestinesi che possono andare via, non pensando di avere un futuro qui, stanno cercando di emigrare. La mia che è una famiglia mista italo-palestinese, ha deciso di trascorrere il Natale qui e saremo a Betlemme nel giorno di Natale anche per testimoniare il fatto che non pensiamo possa esistere una Terra Santa senza cristiani.

Allo stesso tempo è veramente difficile guardare al futuro, pensare che possa esserci un cessate il fuoco a Gaza che possa quindi permettere di assistere un milione e mezzo di persone sfollate che vivono al freddo, in rifugi di fortuna. È difficile capire se gli ultimi ostaggi rimasti possano essere liberati presto e più di tutto se un processo di pace efficace, duraturo, possa effettivamente essere realizzato». Oggi i cristiani in Cisgiordania sono meno del 2 per cento, fino a cinquant’anni fa erano circa il 5.

Quando risaliamo in macchina a Betlemme è sera. Ci sono poche luci accese, ne spicca una con la scritta rossa Segafredo Caffè. Sami accosta in un punto panoramico per farci scattare una fotografia. «Sembra il presepe, vero?». Sì, lo sembra, sospeso nel tempo.

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