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Se l’Alleanza atlantica è senza alcun dubbio, per ambedue i partner, la principale garanzia della stabilità dell’ordine liberale, ben diverso è l’approccio tedesco alla Nato rispetto ai desiderata americani.
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È successo ai tempi della guerra di Corea e del disastro americano in Vietnam e continua a succedere in tempi a noi più vicini: in Iraq come in Afghanistan la Germania e gli Stati Uniti hanno dimostrato tutta la loro distanza nella gestione della forza armata e, in particolare, nella visione dell’Alleanza atlantica e della sua ragion d’essere dopo la scomparsa dell’Unione sovietica.
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Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “Guerra freddissima”, in edicola e in digitale dal 2 settembre.
In questi giorni di torrida estate italiana in molti hanno ricordato i quarant’anni trascorsi dalla finale di Spagna ‘82, quando gli Azzurri vinsero il campionato del mondo di calcio contro la Germania. In pochi però hanno sottolineato che a essere battuta dall’Italia di Paolo Rossi e di Marco Tardelli non fu semplicemente la nazionale della Germania, bensì una delle due nazionali di calcio per le quali i tedeschi dell’epoca facevano il tifo.
Durante la Guerra fredda, infatti, esistevano due Germanie e anche il tifo era diviso fra due nazionali, così come lo era il cielo del famoso romanzo di Christa Wolf.
La Ddr non raggiunse mai le vette del calcio mondiale, così come ancora oggi le squadre delle regioni orientali della Germania faticano a distinguersi nella Bundesliga, ma va detto che nell’unico campionato del mondo al quale riuscì a partecipare, nel 1974, la nazionale della Germania socialista arrivò a battere proprio la nazionale della Germania ovest.
Fu questo il solo scontro sul campo – quello di gioco, per fortuna – che vide contrapporsi la Germania filo-sovietica e quella filo-atlantica negli anni in cui il mondo viveva col fiato sospeso, perché da un momento all’altro un missile di una delle due superpotenze poteva scatenare un’ecatombe nucleare.
La Germania al centro della storia
Ai nostri giorni e per colpa di un nuovo conflitto scoppiato alle porte dell’Unione europea, il mondo sembra nuovamente dividersi in due squadre nella partita della geopolitica: c’è chi tifa per un ordine mondiale garantito dal multilateralismo e presidiato dalla Nato e chi sostiene la squadra del revisionismo, se si può utilizzare una metafora calcistica davanti al dramma della guerra.
Quel che è certo, è che al centro di questa partita, oggi come ieri, ci sia ancora il rapporto fra gli Stati Uniti e la Germania, fra la superpotenza uscita trionfante dalla Guerra fredda e il paese che, dopo la caduta del Muro di Berlino, svolge un ruolo di preminenza nelle dinamiche politiche ed economiche del vecchio continente.
Un rapporto, quello fra Washington e Berlino, tanto significativo da essere ritenuto da molti l’asse centrale per la tenuta dell’ordine liberale in Europa, tanto più in questa fase storica in cui l’assetto geopolitico fondato dagli Stati Uniti proprio in esito alla sconfitta della Germania nazista viene messo in discussione da una serie di attori statali e non statali, in una confusione globale che spinge in molti a parlare di “disordine mondiale”.
L’importanza del rapporto fra Stati Uniti e Germania l’ho capita non tanto sui libri di storia quanto piuttosto lavorando a Berlino, in ambasciata, e avendo modo di conoscere molti berlinesi che ricordano ancora quando, nella loro città divisa dal Muro, si svegliavano ogni mattina nel timore di trovare sotto casa, anziché il tram che li avrebbe portati a lavoro, un carro armato del patto di Varsavia oppure uno dell’Alleanza atlantica.
Anche grazie alle colleghe e ai colleghi che mi hanno insegnato a conoscere la città e i suoi segreti, vivere e lavorare a Berlino è stata per me un’occasione di crescita che, fra l’altro, mi ha portato a scrivere un libro – un lavoro personale, che non coinvolge affatto la mia amministrazione – dedicato al “fattore umano” della Guerra fredda e, in particolare, al rapporto non sempre facile fra i leader della Germania ovest e i loro migliori alleati, gli inquilini della Casa Bianca.
Il libro si intitola La fragile intesa. Berlino e le relazioni euro-atlantiche nei primi anni della Guerra fredda ed è appena uscito per la Luiss University Press con la prefazione del sottosegretario Vincenzo Amendola.
Perché dietro ai grandi temi della geopolitica che animano i talk show televisivi in onda tutte le sere da quando una nuova guerra è scoppiata in Europa, dietro agli eventi che riempiono le pagine dei manuali di storia, non ci sono soltanto apparati industriali o arsenali militari. Ci sono milioni di donne e di uomini che nutrono sentimenti come la paura, l’ansia, l’attesa e persino la rabbia dinanzi alle evoluzioni delle vicende delle relazioni internazionali.
Alleati, ma non sempre allineati
Così è stato in Germania per tutto il corso della Guerra fredda, quando un’angoscia diffusa tanto fra la dirigenza quanto nella popolazione della Germania divisa minava ogni percezione e previsione geopolitica: sfogliando le memorie dei protagonisti tedeschi di quegli anni – in primo luogo, del cancelliere cristiano-democratico Konrad Adenauer e il sindaco socialdemocratico di Berlino ovest Willy Brandt – si capisce benissimo che l’alleanza fra Stati Uniti e Germania occidentale fu determinata più dalla paura di una imminente aggressione russa che dalla fiducia reciproca fra americani e tedeschi, che del resto erano stati nemici fino a pochi anni prima della fondazione della Nato.
Un rapporto non scontato, dunque, quello fra Germania e Stati Uniti: se l’Alleanza atlantica è senza alcun dubbio, per ambedue i partner, la principale garanzia della stabilità dell’ordine liberale, ben diverso è l’approccio tedesco alla Nato rispetto ai desiderata americani. Washington ha sempre auspicato una Germania più consapevole delle responsabilità legate all’uso dello strumento militare, mentre Berlino ha volentieri beneficiato della tutela americana per vedere accrescere il proprio livello di sicurezza, senza per ciò solo sentirsi tenuta a sostenere la Casa Bianca in ogni sua iniziativa di “gendarme del mondo”.
È successo ai tempi della guerra di Corea e del disastro americano in Vietnam e continua a succedere in tempi a noi più vicini: in Iraq come in Afghanistan la Germania e gli Stati Uniti hanno dimostrato tutta la loro distanza nella gestione della forza armata e, in particolare, nella visione dell’Alleanza atlantica e della sua ragion d’essere dopo la scomparsa dell’Unione sovietica.
Le intemperanze verbali del presidente Trump nei confronti della cancelliera Merkel, leader di una Germania ritenuta rea di non investire abbastanza nella difesa atlantica, affondano le radici proprio all’epoca di Adenauer e di Truman e non sembra che lo scorrere dei decenni abbia cambiato di molto le percezioni di Washinton e Berlino in tema di sicurezza collettiva.
Proprio in alcune pagine delle memorie dei leader tedeschi della Guerra fredda si intuisce infatti che agli occhi dei tedeschi dell’epoca gli Stati Uniti appaiono colpevoli di non capire la paura provata dai tedeschi occidentali quando, trovandosi sulla linea del fronte fra Alleanza atlantica e patto di Varsavia, compresero che per nulla al mondo Washington avrebbe impegnato la Nato in un conflitto con Mosca in nome della riunificazione tedesca.
Il Muro cadde infatti molti anni dopo, quando l’Unione sovietica non era più in grado di opporre la benché minima resistenza a una fine della storia, per dirla con Francis Fukuyama, che avrebbe incoronato l’America come la superpotenza trionfante.
Dinamiche storiche che conservano il loro significato ai giorni nostri, quando il ruolo della Nato nella sicurezza dell’Europa torna a essere al centro del dibattito geopolitico e la Germania, una volta ancora, si trova vicino alla linea del fronte, nei pressi di un nuovo appuntamento con la storia.
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