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È un fatto che le recenti, improvvide iniziative di Mosca in Europa orientale sembrano aver spostato a settentrione il baricentro dell’Alleanza atlantica.
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Ne fanno fede l’ingresso ormai pressoché compiuto nel Patto atlantico di Svezia e Finlandia, un nuovo Concetto strategico sostanzialmente russocentrico, e un rafforzamento del dispositivo orientale della Nato quale non si vedeva dai tempi della Guerra fredda.
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A parere di molti, tuttavia, questo atteggiamento condurrà inevitabilmente Bruxelles a trascurare le sfide, altrettanto esistenziali per l’occidente, provenienti dal Levante. Il testo fa parte del nuovo numero di Scenari: “Guerra freddissima”, in edicola e in digitale dal 2 settembre.
È un fatto che le recenti, improvvide iniziative di Mosca in Europa orientale sembrano aver spostato a settentrione il baricentro dell’Alleanza atlantica. Ne fanno fede l’ingresso ormai pressoché compiuto nel Patto atlantico di Svezia e Finlandia, un nuovo Concetto strategico sostanzialmente russocentrico, e un rafforzamento del dispositivo orientale della Nato quale non si vedeva dai tempi della Guerra fredda.
A parere di molti, tuttavia, questo atteggiamento condurrà inevitabilmente Bruxelles a trascurare le sfide, altrettanto esistenziali per l’occidente, provenienti dal Levante. Ciò al netto degli sforzi delle diplomazie euromediterranee, in primis quella italiana, che nel quadro del documento fondante dell’Alleanza per il prossimo decennio sono riuscite a spuntare in tutto un paragrafo, nel quale si accenna in via del tutto esiziale anche ai rischi provenienti dal sud, senza peraltro citarli e dicendo che verranno affrontati in cooperazione con altri. Quali siano questi rischi e chi siano questi altri, non è però dato sapere.
Questo apparente strabismo non è cosa nuova. Affonda le sue radici in un complesso di motivi. In primis nella ragion d’essere dell’Alleanza, e in seconda battuta negli interessi di buona parte dei suoi stati membri, non escluso un certo pregiudizio identitario. Non per questo, tuttavia, può essere giustificato o, peggio, accettato senza discutere.
Alla ricerca di un baricentro
La Nato è nata nel 1949 per proteggere l’Europa occidentale dalla minaccia di un’invasione sovietica. Cioè di un attacco da oriente. Questo attacco da oriente si sarebbe manifestato dove il terreno era più favorevole alla manovra delle forze, ovvero in corrispondenza del grande corridoio nordeuropeo che va dalle coste del Baltico all’Atlantico. Il cosiddetto fronte centrale, spalle al Reno.
In tale contesto erano fondamentali due aspetti. Da un lato resistere sul posto quel tanto che sarebbe bastato a garantire l’afflusso dei rinforzi americani d’oltreoceano, senza i quali non si sarebbe potuto fermare l’avversario. Dall’altro, impedire ai sovietici di bloccare tale afflusso, proteggendo le rotte dell’Atlantico. In uno scenario del genere il fianco meridionale dell’Alleanza era del tutto secondario. Il terreno non consentiva la manovra, in ragione delle montagne, e il Mediterraneo era un mare chiuso.
Dunque lo sforzo principale sovietico sarebbe stato altrove e la battaglia – quella vera –sarebbe avvenuta in nord Europa e nell’Atlantico settentrionale. E il Grande nord? Essenziale per evitare l’aggiramento da settentrione del fronte centrale e l’accesso dei sovietici all’Atlantico, nello spazio compreso tra il Baltico e i ghiacci dell’Artico, tra la Groenlandia e l’Islanda.
Con la scomparsa dell’Unione sovietica, ovviamente, tutte queste ipotesi sono venute meno. In aggiunta, a partire dagli anni Novanta la Nato si è dedicata sempre meno alla difesa collettiva e sempre di più alla proiezione di stabilità sulla massa continentale eurasiatica e alla cooperazione per la sicurezza nella direzione del Mediterraneo e del Levante. Al punto che ha eliminato i suoi comandi dedicati all’Atlantico. Nel contempo, tuttavia, ha aperto la porta a nuovi stati membri, gli ex del patto di Varsavia.
Reduci dall’occupazione sovietica e naturalmente ostili alla Russia, atlantisti duri e puri, gli orientali vedevano nell’ombrello nucleare americano la migliore garanzia per il proprio futuro e l’unica ragione per l’adesione, e nell’attenzione a est il naturale baricentro dell’Alleanza. In ciò sostenuti da potenti diaspore presenti sul territorio statunitense, e da una certa insofferenza da parte di Washington nei confronti degli occidentali.
Insofferenza che nasceva da due ordini di motivi. In primo luogo da polemiche mai sopite, e ampiamente giustificate, per l’ineguale distribuzione degli oneri tra le due sponde dell’Atlantico. In seconda battuta, dalla presunta ambivalenza degli europei nei confronti della Russia. Europei che, invece, da un lato premevano per mantenere aperto il dialogo con Mosca, se non altro in ragione dei rilevanti rapporti economici, e dall’altro sollecitavano attenzione per il fianco meridionale dell’Alleanza, esposto a crescente pressione derivante dall’instabilità della regione nordafricana e mediorientale.
Si è venuta così a creare in ambito Nato una sorta di diarchia tra membri “vecchi” e “nuovi”, che ha portato a valutazioni non sempre coincidenti circa il baricentro degli interessi dell’Alleanza e le priorità da adottare al riguardo.
Se l’attacco alle Torri gemelle e il successivo impegno nella guerra globale contro il terrorismo hanno inizialmente spostato l’attenzione degli Stati Uniti lontano dall’Europa, costringendo gli stati del continente al ruolo di comprimari in un grande disegno di stabilizzazione solo in parte condiviso, la ritrovata assertività della Russia accompagnata dalle iniziative cinesi ha riacceso di seguito l’attenzione di Washington ed è sembrata avvalorare le diffidenze dei nuovi membri, riportando l’accento dell’Alleanza sul fianco orientale e settentrionale in un contesto assolutamente convenzionale. Atteggiamento incoraggiato dal progressivo disimpegno per stanchezza dalle operazioni di stabilizzazione fuori area, rivelatesi nel tempo politicamente complesse, di scarsa efficacia sul terreno e contemporaneamente assai dispendiose.
Perché il sud non va ignorato
Al quadro geostrategico così delineato si è aggiunto nel tempo un fenomeno naturale ormai ben noto, ovvero la riduzione dell’estensione della calotta artica dovuta al riscaldamento globale. Tale fenomeno appare oggi suscettibile di cambiare radicalmente il modo di comunicare via mare tra emisfero occidentale e orientale del globo.
In buona sostanza, la rotta artica consente di andare dalla Cina all’Europa e agli Stati Uniti costeggiando la Russia settentrionale senza passare per l’oceano Indiano, evitando Suez o il periplo dell’Africa. E, dal momento che tale rotta è per la maggior parte sotto controllo di Mosca, e giunge nelle Americhe da nord saltando a piedi pari l’Atlantico, le implicazioni strategiche sono evidenti. Non è un caso, quindi, che anche gli equilibri dell’Artico siano entrati in gioco e che, di fronte alla prospettiva di un aggiramento, Svezia e Finlandia siano entrate a pieno titolo nella compagine atlantica. Spostando ancora di più il baricentro verso nord.
Nondimeno, la sfida valoriale in atto con Mosca e – in prospettiva – con Pechino, non deve indurre a dimenticare il resto del mondo e ciò che in esso succede. Il rischio che si corre è infatti quello di volgere lo sguardo a est e a nord, e dimenticare ciò che si agita a sud e e nel Levante. Senza nulla togliere all’immanenza della sfida russa dall’Artico al mar Nero, infatti, attraverso il Mediterraneo arrivano sfide altrettanto esistenziali per l’occidente, per la Nato, e per i paesi che insistono sul fianco meridionale dell’Alleanza.
Da un lato, il terrorismo transnazionale di matrice islamica e gli attori non statuali che lo hanno sinora praticato sono lungi dall’essere sconfitti. Ciò non solo perché militarmente non sono scomparsi, ma perché la sfida valoriale che essi rappresentano non è venuta meno. In buona sostanza, guardando al medio oriente, a fronte del sostanziale fallimento di società post-coloniali ispirate a valori europei, il richiamo a un ordine islamico delle origini mantiene intatta tutta la sua attrattiva. In parallelo, pericolosi attori statuali – o le milizie non statuali da essi ispirate – conducono quotidianamente la loro sfida all’ordine internazionale e governano popoli e territori, creando le premesse di ulteriori rivolgimenti politico-sociali.
In seconda battuta, e con riferimento all’Africa, l’adozione di processi di sviluppo disarmonici o non sostenibili, e l’assenza di una governance inclusiva, determinano continue crisi e flussi migratori verso il settentrione. Da ultimo, è necessario contrastare l’assertività delle cosiddette potenze revisioniste dell’ordine internazionale – Russia e Cina in primis – che si sono inserite nel vuoto di potere lasciato dal disimpegno occidentale sia in Africa sia in medio oriente, e vi conducono una spregiudicata politica di potenza tesa ad affermare i propri valori e le proprie priorità strategiche in assoluta antitesi agli interessi occidentali.
In buona sostanza, al netto del rafforzamento della difesa collettiva di fronte alla palese minaccia russa, la Nato non può permettersi il lusso di ignorare ciò che succede altrove, e segnatamente in area mediterranea. Anche se l’Alleanza non è in grado da sola di fare nation building – l’Afganistan l’ha dimostrato – deve comunque agire in cooperazione con altri, in primis l’Unione europea, per affrontare sfide che sono politiche prima ancora che militari. Anche se il cuore batte altrove, dunque, ignorarle potrebbe essere molto pericoloso.
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