Se davvero funzionerà il piano di tregua tra Israele e Hamas, e c'è da dubitarne a maggior ragione dopo i tentennamenti di Benjamin Netanyahu seguiti a una prematura euforia dopo l'annuncio dell'accordo, se dunque funzionerà si possono trarre alcune seppur parziali conclusioni, trattandosi di Medio Oriente.

Il premier di Israele si è infilato in un tunnel in cui è ostaggio di molti fattori. Anzitutto delle parole troppo reboanti spese nei 468 giorni di guerra: 468 e non 467 perché anche ieri i raid di Tsahal hanno ucciso 83 persone nella Striscia.

Poi dei ministri razzisti del suo governo Itamar Ben-Gvir e Bezalem Smotrich, assai riottosi ad accettare la fine della guerra. Anche dei parenti dei rapiti preoccupati che qualcosa si inceppi nelle tre fasi del rilascio dei loro congiunti. Infine, ultimo ma non ultimo, di Donald Trump, che si insedierà alla Casa Bianca il 20 gennaio.

L’asse ammaccato

Con ordine. Netanyahu aveva promesso di distruggere Hamas e con esso tutto l'asse sciita, compresi Hezbollah, gli Houti dello Yemen, su su fino alla testa del pericolo, l'Iran della Repubblica teocratica degli ayatollah. Vasto programma, nei fatti irraggiungibile. L'asse è molto ammaccato, Hezbollah quasi annientato, non così gli Houti e l'Iran.

Quanto ad Hamas ha perso migliaia di uomini ma, stando al segretario di Stato Usa Antony Blinken, altrettanti ne ha arruolati, almeno ventimila, tra i giovani che nei quindici mesi di conflitto hanno maturato l'odio necessario per prendere le armi.

Altrettanti se non di più, nella stima dell'ex generale di brigata in pensione di Israele Amir Avivi, certo meno addestrati e pronti alla battaglia ma un organico sufficiente per un esercito in nuce, dunque una futuribile minaccia. La formazione jihadista ha pianto il leader e architetto del 7 ottobre Yahya Sinwar, ma lo ha rimpiazzato con il fratello minore Muhammed, non meno sanguinario.

Le spine di Bibi

Ben-Gvir e Smotrich. Sono da sempre la spina sul fianco destro del governo. Vagheggiano il Grande Israele con l'annessione della Cisgiordania e il ritorno delle colonie e Gaza. Pretendono la continuazione delle ostilità. Netanyahu potrebbe isolarli abbracciando i centristi pronti a sostenere la tregua. Sarebbe una esecutivo di scopo con poche possibilità di durare. E Bibi vuole durare.

I parenti degli ostaggi. Si stanno chiedendo quale differenza ci sia tra l'accordo di Doha del maggio scorso e quello dell'altro ieri. E si rispondono sconsolati: nessuna. In mezzo ci sono diversi parenti morti nei tunnel di Hamas oltre alle migliaia di vittime palestinesi. Dunque la differenza è solo politica: cambia l'inquilino della Casa Bianca.

E siamo a The Donald. Per paradosso, ma non troppo, per Netanyahu era preferibile un Biden a cui poteva dire i “no” che ha detto e che non può dire all'assai più muscolare Trump, nonostante avesse a lungo atteso il suo ritorno. Al contrario di Biden portatore di una visione ideologica in materia di democrazia e diritti umani, Trump ha un'idea economicistica dei rapporti internazionali. Ciò che gli preme di più è portare a conclusione gli Accordi di Abramo tra lo Stato ebraico e una parte dell'universo sunnita. Coinvolgendo l'Arabia Saudita, l'altro prezioso alleato degli Usa nell'area.

Mohammad bin Salman, premier e primo in linea di successione al re saudita suo padre, ha molto misurati i toni della condanna a Israele per la carneficina di Gaza e vede nel rapporto con Gerusalemme la possibilità di far fiorire buoni affari. L'alleanza potrebbe sfociare, in tempi certo non brevi, nel mutuo riconoscimento reciproco: e questa sì sarebbe una vera svolta per l'intero Medio Oriente. Inoltre la crescita dell'influenza saudita servirebbe a contenere le mire egemoniche della Turchia di Erdogan sull'intero mondo islamico.

C'è, tuttavia, un problema. La sola condizione posta dai sauditi per un passo così epocale è la nascita di uno Stato palestinese. Dunque Netanyahu deve decidere. Da un lato Ben Gvir e Smotrich, dall'altro Trump e bin Salman. La scelta pare obbligata. Ne guadagnerebbe una maggiore stabilità dell'intera area.

Infine una nota. Il ritorno in grande stile sullo scenario degli Usa coincide con la pressoché totale scomparsa della Russia che pensava di ereditarne il ruolo di potenza garante. Putin non può più contare sulla Siria dopo l'uscita di scena di Assad, è fuori dai giochi di questo grande risiko. Non gli resta che l'Iran.

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