- “Guantanamo europea” è il termine che l’organizzazione Rights & Security International ha utilizzato per descrivere la condizione di illegalità nella quale si trovano queste persone.
- «Nel campo le madri stanno educando i figli alla vendetta», spiega a Domani un alto ufficiale delle Sdf nella città di Qamishli. «Ma c’è di più: il tasso delle nascite continua a salire. Sta crescendo una generazione di soldati che vorrà vendicare il Califfato».
- I governi europei temono di non riuscire ad avere gli strumenti legali per condannare queste donne in patria con la sola accusa di essere state al fianco dei mariti nello Stato islamico.
Quando si arriva nella più grande tendopoli al mondo di sfollati provenienti dalle aree dell’ex Califfato è difficile capire se ci si trova in un campo profughi o in una prigione. Per entrare ad Al Hol, nella punta nordorientale della Siria, bisogna passare diversi controlli di sicurezza e avere un pass rilasciato dall’amministrazione del campo.
Recinzioni alte 2-3 metri circondano tutta l’area. Ma se nella maggior parte del campo le autorità cercano di mantenere la natura umanitaria dell’accoglienza, all’interno di questa piccola città di 66mila abitanti (in gran parte siriani e iracheni) c’è un settore che non può essere scambiato per nient’altro se non per un vero e proprio centro di detenzione. Si chiama Annex, ed è il reparto in cui vivono segregate circa 10mila persone, le mogli e i figli dei foreign fighter provenienti dall’Europa e dal resto del mondo che si erano uniti all’Isis negli anni dello Stato islamico.
La zona è circondata da un terrapieno sopra il quale le guardie armate delle Sdf (Syrian democratic forces, l’alleanza curdo-araba appoggiata dalla coalizione a guida Usa) controllano che nessuno esca. Dietro le recinzioni le donne col niqab sfilano in gruppi vicino ai bambini che giocano.
Sono a tutti gli effetti cittadini britannici, tedeschi, belgi, francesi, olandesi, russi (sono 62 le nazionalità rappresentate nell’Annex) che i rispettivi governi non vogliono riprendersi. Rinchiusi qui negli ultimi due-tre anni – da quando cioè il Califfato ha iniziato a disgregarsi sotto l’offensiva curdo-araba appoggiata dalla coalizione – senza aver ricevuto alcun processo e completamente spogliati di tutti gli essenziali diritti giuridici.
Il campo
“Guantanamo europea” è il termine efficace che l’organizzazione Rights & Security International (Rsi), impegnata nella difesa dei diritti umani, ha utilizzato in un esteso rapporto recentemente pubblicato per descrivere la condizione di illegalità nella quale si trovano queste persone.
Se molte delle donne hanno abbracciato consapevolmente gli ideali di Daesh, lo stesso non si può dire per i bambini, che rappresentano più della metà della popolazione del campo. Più della metà dei minorenni ha meno di cinque anni e la maggior parte ne ha meno di 12. Costretti a pagare per le scelte dei loro padri e delle loro madri, senza nessuna possibilità di costruirsi una vita e per i quali la strada più probabile è quella della radicalizzazione.
«Nel campo le madri stanno educando i figli alla vendetta», spiega un alto ufficiale delle Sdf nella città di Qamishli, 80 chilometri a nord di Al Hol. «Ma c’è di più: nonostante i mariti di queste donne siano nelle prigioni, il tasso delle nascite continua a salire. Riteniamo che ci siano stati casi di madri che hanno spinto gli adolescenti a fare figli. Sta crescendo una generazione di soldati che vorrà vendicare il Califfato».
Secondo il rapporto di Rsi, alcune delle gravidanze sarebbero invece attribuibili a violenze sessuali commesse da ufficiali delle Sdf.
Il paradosso
Dall’Europa per anni si sono alzate voci per la chiusura di Guantanamo, ma ora sono proprio i governi del Vecchio continente ad aver replicato lo stesso scenario. Il numero di bambini nell’Annex è quasi nove volte superiore alla popolazione massima mai raggiunta nella prigione americana a Cuba.
In Siria la situazione è ribaltata, tanto che gli Usa hanno già rimpatriato tutti i 27 cittadini americani (tra cui 15 bambini) presenti nelle strutture delle Sdf e stanno facendo pressioni sugli alleati europei perché si muovano sulla stessa linea. L’Italia sembra aver risposto all’appello. Il 29 settembre, Alice Brignoli è stata arrestata dai carabinieri del Ros nel campo di Al Hol e riportata in Italia insieme ai quattro figli. Secondo il ministero dell’Interno, sarebbero ancora due i cittadini italiani sotto tutela delle Sdf.
Il 19 dicembre, Germania e Finlandia hanno rimpatriato cinque donne, che saranno indagate al loro rientro a casa, e 18 bambini. Molti paesi europei stanno sfuggendo alle proprie responsabilità. La maggior parte, come la Francia, i Paesi Bassi o la Svezia, stanno rimpatriando solo i bambini orfani o bisognosi di cure specifiche. Alcuni, come il Belgio, hanno fatto tornare giusto un paio di donne con i figli. Il Regno Unito si sta distinguendo in negativo per la pratica di togliere la cittadinanza ai suoi sudditi nei campi e nelle prigioni.
L'Amministrazione autonoma della Siria del nordest, che governa la regione conosciuta come Rojava, sta facendo pressioni sulle capitali straniere affinché rimpatrino i loro cittadini, chiarendo che è l’unica via possibile per il loro rilascio. Diversi stati europei sostengono che riportare i propri connazionali in patria sia logisticamente complesso. Oppure che non hanno rappresentanze diplomatiche ufficiali in Siria, e che non vogliono trattare con le autorità curde siriane perché considerate vicine al Pkk.
Motivazioni prive di reale sostegno, considerato che funzionari e militari di paesi europei circolano senza difficoltà nel nordest della Siria e che i rapporti tra curdi-siriani e Pkk non hanno mai impedito di allacciare relazioni tra il Rojava e l’occidente.
Il timore
La verità è che i governi temono di non riuscire ad avere gli strumenti legali per condannare queste donne in patria con la sola accusa di essere state al fianco dei mariti nello Stato islamico. E di ritrovarsi così con persone altamente radicalizzate all’interno del territorio nazionale.
«A inizio settembre quattro donne e sei bambini sono stati trovati dalla polizia dentro un camion cisterna per l’acqua», racconta Fatima, che ha lavorato per diversi mesi nell’Annex e ora fa la traduttrice, «cercavano di scappare, ma stavano soffocando e hanno iniziato a bussare contro la lamiera». Gli abitanti del campo vivono nella paura: solo nel 2020 sono stati registrati dai 30 ai 35 omicidi ad Al Hol e ultimamente sono sempre più comuni.
Non si sa con esattezza in quanti muoiano dentro l’Annex, a volte i corpi vengono seppelliti dentro il reparto. Le donne più vicine all’Isis o uomini coperti dal niqab sparano da sotto il vestito con pistole silenziate o usano il coltello. Le vittime sono per la maggior parte dei casi coloro che sono accusati di collaborazionismo con le forze di sicurezza curde oppure donne considerate dai costumi troppo leggeri.
Ad Al Hol si vive un costante scontro tra chi è rimasto legato alle idee dell’Isis e chi invece le ha ripudiate o ne è stato vittima. Alcune aree sono diventate così pericolose che né gli operatori umanitari né le forze di sicurezza possono accedere.
Ai problemi legati alla violenza bisogna aggiungere quelli legati all’assistenza sanitaria. L’attività delle strutture ospedaliere è ridotta a sole quattro ore al giorno e l’accesso a servizi specifici per i pazienti al di fuori di Al Hol è frenato dai permessi che le autorità del campo devono rilasciare: nessuno può uscire senza una scorta di sorveglianza.
«I pazienti che necessitano di servizi al di fuori del nordest della Siria sono in attesa di trasferimento da quasi un anno», spiega Maria P., medical advisor di Un Ponte Per, ong italiana che insieme alla Mezzaluna rossa curda ha messo in piedi il primo centro clinico nel campo quattro anni fa e ne ha aperto un secondo nel 2019.
Nella zona di attesa attrezzata tra i container che formano la clinica, decine di donne e bambini aspettano il proprio turno. «Una ragazza che aveva un piccolo nodulo al seno non ha avuto i permessi per andare a curarsi a Damasco», continua Maria, «e ora il nodulo è diventato un grosso tumore».
I casi sospetti
In una spianata adiacente all’Annex, l’Oms ha fatto costruire quattro capannoni per fronteggiare l’ultima emergenza entrata ad Al Hol: il Covid-19. Da settembre sono stati effettuati circa 43 tamponi. Tredici i casi confermati, di cui nove guariti e quattro morti.
Attualmente nei capannoni, divisi per maschi e femmine, casi sospetti e confermati, non ci sono pazienti. Ma non bisogna farsi ingannare da questi numeri. «Il 10 dicembre sono usciti i risultati preliminari di un’indagine effettuata sulla popolazione», spiega Maria, «circa l'8 per cento delle famiglie intervistate ha riportato almeno tre dei sintomi sospetti per il Covid-19, e la cosa preoccupante è che i dati arrivano da punti sparsi per tutto il campo».
Mahmoud Ali, il responsabile di Krc ad Al Hol, è seduto nel suo ufficio prefabbricato: «Spesso chi ha i sintomi ha paura dello stigma sociale e cerca di nascondere la malattia. Per non parlare del fatto che molti non pensano a prendere alcuna protezione, fatalisticamente convinti di essere nelle mani di Dio». Coprifuoco e distanziamento sociale sono concetti inapplicabili nel contesto di Al Hol, e la possibilità che il virus inizi a circolare liberamente è alta. «Non siamo assolutamente preparati», spiega Mahmoud. «Se l’epidemia esplodesse sarebbe un disastro totale».
A partire da inizio ottobre, l’amministrazione del Rojava ha dato il via a un piano di trasferimenti per far tornare gradualmente le famiglie siriane alle loro case. Diversa la situazione per i cittadini provenienti dall’Iraq, che da anni rifiuta i rimpatri. I governi europei hanno i mezzi per garantire alle donne un regolare processo nel paese di origine e ridare ai bambini un futuro. Facciano la loro parte.
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