Le élite mediorientali, solo in apparenza diverse fra loro, sono reazionarie, fondano il consenso sulla minaccia esterna. È a loro che conviene alimentare nel dibattito pubblico l’idea di un imminente conflitto, senza necessariamente provocarlo
L’ennesimo scambio di fuoco tra Israele e Hezbollah, avvenuto alle prime ore di domenica scorsa, e le successive dichiarazioni del premier israeliano Benjamin Netanyahu e del leader del movimento sciita libanese Hasan Nasrallah, alleato dell’Iran e di Hamas, hanno confermato la validità dell’equazione di potere su cui da decenni, e non solo dal post 7 ottobre, si reggono gli equilibri mediorientali.
Ovvero: fare la guerra per dichiarati scopi di “sicurezza” o di “resistenza”, protrarla nel tempo senza però trasformarla in un conflitto su ampia scala, ed evocare costantemente lo spettro di una decisiva ed esistenziale battaglia finale per annientare il nemico. Con questa formula, tanto antica quanto attuale e collaudata, il governo di Netanyahu, l’Iran e i suoi alleati regionali, Hezbollah e Hamas in primis, cercano da quasi un anno di mantenere una posizione di dominio nei rispettivi contesti politici.
Dalla prospettiva di queste élite, solo in apparenza rivali e diverse fra loro, ma tutte reazionarie e fondate su un consenso popolare alimentato dalla permanente minaccia esterna, lo scenario mediorientale post 7 ottobre è stato, e continua a essere, un salvifico elisir di lunga vita politica e istituzionale.
Per gli interpreti di questi poteri, lo scenario distopico di una devastante guerra regionale che coinvolgerebbe tutto il Mediterraneo orientale, la Mesopotamia e il mar Rosso, portando distruzione e morte tra i civili delle principali città del Medio Oriente – Tel Aviv, Gerusalemme, Beirut incluse – va incessantemente rappresentato nel discorso pubblico, ma deve essere evitato a tutti i costi.
Perché un conflitto armato di questo tipo non porterebbe solo desolazione tra le popolazioni civili; avrebbe anche un impatto potenzialmente destabilizzante per le stesse strutture di potere in Iran, Israele e Libano, con profonde ripercussioni in tutta l’area.
La cosiddetta sicurezza e stabilità del Medio Oriente, una formula presente da decenni in quasi tutti i comunicati delle cancellerie occidentali e della regione, è prima di tutto la sicurezza e la stabilità di questi sistemi politici dominanti, esclusivi e liberticidi.
È lo statu quo fondato sulla spartizione, tacitamente consensuale, dei territori e delle risorse di un’area storicamente al centro degli interessi globali e che si estende dal Levante all’oceano Indiano, dallo stretto di Hormuz al canale di Suez, passando per la strozzatura di Bab al-Mandab, tra Yemen e Corno d’Africa.
La guerra totale mediorientale, così avidamente anticipata per tutto il mese di agosto dai mezzi di informazione di mezzo mondo, nell’ormai consolidata immagine collettiva dovrà esser realmente scoppiettante e dilagante, per far dimenticare l’antipasto scialbo e deludente della scorsa primavera: quando, per la prima volta nella storia, l’Iran aveva lanciato missili balistici e droni contro Israele. Causando un’unica vittima, la giovane Amina, bimba di 7 anni della comunità palestinese beduina del Neghev.
Eppure, l’isteria mediatica di quella notte di metà aprile nascondeva una brama di moltissimi tra osservatori e gente comune: assistere finalmente alla fine di un mondo che non piace a molti. Ma che serve a pochi: ovvero a quell’oligarchia elitaria mediorientale (Netanyahu incluso) che, da una parte, alimenta un discorso pubblico intriso di identitarismo nazionalista, etnicista e confessionale; e che, dall’altra, gestisce l’articolato sistema di estrazione delle risorse e di distribuzione esclusiva dei privilegi (non diritti) ai rispettivi sudditi (non cittadini).
L’isteria narrativa di aprile è tornata a dominare il discorso mediatico, politico e diplomatico delle ultime settimane: presto dimenticata la spirale di tensione di aprile, la retorica politica ha ripreso a generare immagini di un conflitto su ampia scala, dando vita a una serie di fatti concreti sul terreno: spingendo, per esempio, compagnie aeree ad annullare voli su Beirut e innescando una sequenza di allerte diramate da ambasciate, rivolte ai propri connazionali perché lasciassero in fretta e furia il Libano.
Il messaggio era lo stesso di aprile. Ma nell’oblio generale per molti c’era la notizia: la guerra – quella definitiva e clamorosa come nei più stucchevoli disaster movie – era alle porte. Adesso, dopo l’ultimo significativo scambio di fuoco tra Hezbollah e Israele, la sequenza si è prima impennata, avvitandosi verso l’alto, con titoli a effetto e attese spasmodiche. Ed è poi collassata verso l’attuale noiosa apparente normalità, fatta di un conflitto comunque sanguinoso e violento (circa 150 civili uccisi in Libano, circa 30 in Israele, più di 100mila sfollati in Libano, circa 90mila in Israele). In attesa della prossima più eccitante escalation.
Strutture di potere dominanti
Così, mentre le varie opinioni pubbliche vengono scarrozzate più o meno consapevolmente sulle montagne russe dell’allarmismo, le strutture di potere rimangono dominanti: non solo prendono tempo – una risorsa preziosa in politica e nei negoziati – ma si assicurano una relativa stabilità nel consenso popolare. In alcuni casi riescono a rafforzare le proprie posizioni. Se la fine del mondo è dietro l’angolo, l’orizzonte individuale e collettivo sparisce. Esiste solo il qui e l’ora. La necessità di arrivare a fine giornata. Con l’eterna paura del bombardamento nemico.
Non era così prima del 7 ottobre scorso, quando, per ragioni legate ai diversi contesti locali, il sistema al potere in Iran, quello di Hamas a Gaza, quello di Hezbollah in Libano e quello di Netanyahu in Israele avevano dovuto fare i conti con cali del consenso e con vere e proprie crisi politiche, innescate da proteste popolari più o meno estese e prolungate.
E questo nel quadro di una più ampia contestazione dello statu quo da parte di segmenti delle società mediorientali: dal 2005 fino al 2023, da Beirut a Teheran, passando per Tel Aviv, Il Cairo, Gerusalemme, Tunisi, Gaza, Baghdad, Sanaa, Damasco, Aleppo, Mosul, Manama, Mascate, Aden, Tripoli, Rabat, le piazze si erano mobilitate per rivendicare diritti socio-economici e politici. Le élite hanno reagito, come sempre reagiscono in questi casi: repressione, strategia della tensione, ma anche, e soprattutto, aggiornamento di quella matrix narrativa reazionaria chiamata a offrire un senso e una prospettiva: siamo in guerra contro un nemico che vuole annientarci, è uno stato di eccezione che non lascia spazio, per ora, alla revisione del patto sociale.
Domenica scorsa, Netanyahu ha detto che «l’attacco preventivo» a Hezbollah poco prima dell’alba «non è la fine della storia». Nasrallah, dal canto suo, ha detto che l’attacco a Israele è «solo la prima fase della risposta» al raid israeliano del 31 luglio a Beirut. Due sciamani chiamati a pronunciare la magica formula del potere: la guerra continua, noi siamo e rimaniamo qui a difendervi.
Così, con l’estate ai titoli di coda, i distopisti di professione già raccolgono elementi di contenuti sparsi per dare sostanza alle previsioni, sempre più insistenti, secondo cui il tanto atteso conflitto aperto mediorientale si verificherà tra ottobre e novembre, a ridosso delle elezioni presidenziali americane. L’orizzonte si dilata, almeno in apparenza, ma solo a beneficio di chi è al potere e intende rimanerci.
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