Crescono le proteste nel paese. Tentare di sradicare Hamas allontana la liberazione dei prigionieri. «Chi chiama il ritrovamento di corpi senza vita un successo si deve vergognare», dice un attivista
«Riportare indietro sei corpi non è un successo, è vergognoso! Chi definisce il ritrovamento dei corpi di sei ostaggi un successo si deve vergognare», dice a Domani Gershon Baskin, esperto negoziatore israeliano per il rilascio di ostaggi detenuti da Hamas e attivista per la pace. «Vergogna anche per quelli che lodano la distruzione di Gaza e l’uccisione di decine di migliaia dei suoi abitanti».
All’indomani del ritrovamento a Gaza da parte dell’esercito israeliano (Idf) dei corpi di sei ostaggi catturati vivi il 7 ottobre, le frasi di Baskin riflettono l’esasperazione di una buona parte della società israeliana che da tempo pensa che il governo di Benjamin Netanyahu non solo non abbia fatto abbastanza per salvare i più di 250 ostaggi detenuti a Gaza, ma che abbia sbagliato completamente strategia, privilegiando la continuazione delle ostilità per sradicare Hamas dalla Striscia e ottenere attraverso la pressione militare la liberazione degli ostaggi.
Almeno questa è la versione meno virulenta delle critiche. Molti pensano e dicono apertamente che la continuazione della guerra serve a Netanyahu ad allontanare il giorno in cui dovrà rispondere, insieme al suo governo, delle cause che hanno permesso ad Hamas di uccidere più di 1.200 persone in poche ore nell’assalto del 7 ottobre. Ed anche a posticipare il verdetto dei processi per frode e corruzione per cui era stato rinviato a giudizio prima dell’inizio della guerra.
Dopo più di dieci mesi di conflitto la speranza che gli ostaggi potessero tornare si è affievolita sempre di più, come pure la fiducia che Netanyahu stesse perseguendo prioritariamente questo obiettivo.
Per anni, praticamente da quando Israele è esistito, il contratto sociale che ha retto il paese includeva non solo la promessa di dare una casa sicura agli ebrei, ma anche l’impegno a salvare gli ostaggi o i prigionieri fatti dai propri nemici con praticamente qualsiasi mezzo. In passato, questo ha comportato o il salvataggio ad opera dei militari e dei servizi segreti o accordi su scambi di prigionieri a volte numericamente molto favorevoli ai propri nemici.
Lo stesso Baskin negoziò il rilascio del soldato Gilad Shalit, scambiato nel 2011 con 1.027 detenuti palestinesi dopo cinque anni e quattro mesi di prigionia. In novembre, la liberazione di circa un centinaio di ostaggi è avvenuta a fronte della liberazione di circa il triplo di detenuti palestinesi, nel quadro dell’unico accordo di tregua finora attuato.
Dalle colonne di questo giornale Yigal Carmon, ex consigliere anti-terrorismo dei primi ministri israeliani Yitzhak Shamir and Yitzhak Rabin, ora a capo del think tank Middle East Media Research Institute (Memri), aveva invitato il governo israeliano una settimana dopo l’attacco di Hamas ad offrire ai miliziani tutti i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.
«I nostri ostaggi saprebbero di poter essere rilasciati, così pure le loro famiglie. Glielo dobbiamo. Le famiglie devono sapere che Israele è disponibile a consegnare tutti i prigionieri nelle nostre carceri. E spero che questo finalmente accada», disse Carmon a Domani in ottobre. Ma le cose sono andate diversamente.
«Non sono una priorità»
Dopo l’intesa di novembre malgrado i vari tentativi non è stata raggiunta nessuna tregua che potesse permettere il ritorno di altri ostaggi. Secondo le stime ufficiali israeliane sono almeno 66 gli ostaggi morti in prigionia. Solo i corpi di 30 di questi sono stati rimpatriati. Sui 116 ostaggi tornati vivi da Gaza, solo sette sono stati salvati da operazioni dell’Idf. A Gaza ne rimangono circa 109, inclusi i morti e quattro persone prese in ostaggio nel 2014 e 2015.
«Netanyahu non ha considerato riportarli a casa una priorità. Li sacrifica ogni giorno a Gaza», dice Baskin. Secondo l’ex negoziatore l’obiettivo dichiarato del governo – sradicare Hamas e riportare a casa gli ostaggi – è intrinsecamente contraddittorio.
«Il primo obiettivo non è raggiungibile, di sicuro non militarmente. Per sradicare questo movimento è necessario un movimento migliore, con idee migliori, come libertà, liberazione. Questo obiettivo non raggiungibile fa credere all’opinione pubblica e all’esercito che la liberazione degli ostaggi può essere ottenuta militarmente. Ma non è così. La pressione militare uccide gli ostaggi, non li libera» dice Baskin.
La proposta di accordo ora sul tavolo non è adeguata, secondo Baskin e il Forum delle famiglie degli ostaggi, un’organizzazione di volontari che ha supportato i parenti dall’inizio della guerra.
«Si parla della liberazione di 33 ostaggi nell’arco di sei settimane e poi ulteriori trattative e cessate il fuoco. Questo non è un buon accordo. Si deve parlare di tutti gli ostaggi, della fine della guerra dopo quattro o sei settimane al massimo, il ritiro di Israele da Gaza e il rilascio di detenuti palestinesi. Questa dovrebbe essere la priorità» dice Baskin.
Le famiglie degli ostaggi continuano a manifestare giornalmente chiedendo a Netanyahu di accettare l’accordo ora in discussione.
Straziati e stremati da più di dieci mesi di attesa, credono che solo questo possa far tornare a casa i propri cari.
«Israele ha l’obbligo morale ed etico di riportare tutti gli assassinati per un funerale dignitoso e di portare tutti gli ostaggi vivi a casa per la loro riabilitazione. Il ritorno immediato dei rimanenti 109 ostaggi può essere ottenuto solo con la negoziazione di un accordo. Il governo israeliano, con l’assistenza dei mediatori, deve fare tutto ciò che in proprio potere per finalizzare l’accordo attualmente sul tavolo» ha dichiarato il Forum delle famiglie in un comunicato.
I mediatori per la tregua continuano a lavorare questa settimana, definita dai più come cruciale, ma il risultato sembra ancora molto incerto.
Il premier Netanyahu ha detto martedì in un incontro con il Valor Forum, che rappresenta parte delle vittime della guerra e il Tikva Forum, un’altra organizzazione più piccola di supporto alle famiglie degli ostaggi, entrambi gruppi considerati affini ideologicamente al premier, di non essere sicuro che vi sarà un accordo nei prossimi giorni.
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