Anche in Cina il 2022 inizierà dopo domani. Tuttavia per i festeggiamenti per l’anno nuovo – quelli con fuochi d’artificio, abbuffate di ravioli (jiăozi) in famiglia, e regali in contanti avvolti nelle buste rosse (hóngbāo) – bisognerà attendere il 1° febbraio, quando, secondo il tradizionale calendario lunisolare, inizierà l’anno della tigre, terzo per importanza tra i dodici animali che popolano lo zodiaco cinese.

Fatta questa doverosa promessa, e dopo aver ricordato che il 2020, l’anno della bestia più quotata, il topo, passerà alla storia come uno dei più infausti, con l’esplosione dell’epidemia di Sars-CoV-2 a Wuhan, una cosa è certa: il 2022 sarà soprattutto l’anno del XX Congresso nazionale del Partito comunista cinese (che si svolgerà tra ottobre e novembre), che dovrebbe attribuire a Xi Jinping un inedito terzo mandato da segretario generale, oppure nominarlo presidente del Pcc, come abbiamo ipotizzato in questo articolo.

Si tratterà di un passaggio storico e delicatissimo, e… occhio alla cabala: bisogna ricordare, a beneficio dei detrattori del Pcc, di comunisti vetero e post e degli osservatori di questioni internazionali, che il XX Congresso del Pcus (14-26 febbraio 1956), fu quello in cui Nikita Kruscev denunciò i crimini di Stalin e lanciò la destalinizzazione, mentre per i comunisti italiani il XX Congresso del Pci (31 gennaio-3 febbraio 1991) decretò lo scioglimento del più grande partito comunista dell’occidente e la nascita del Partito democratico della sinistra.

Perciò, se nella Grande sala del popolo di Pechino tutto si concluderà secondo copione, il Pcc non mancherà di sottolineare che – dopo aver compiuto, quest’anno, un secolo di vita – avrà superato anche lo storico traguardo del XX Congresso, alla faccia di chi, come la “Collapsing China school” (Gordon Chang, David Shambaugh, Minxin Pei, tra gli altri) da decenni ne profetizza il crollo imminente.

Come succede ogni cinque anni – quando circa 2.250 delegati si riuniscono nel Congresso nazionale – nel 2022 verrà data priorità assoluta al “mantenimento della stabilità sociale” (wéiwĕn). Ciò significa che nelle strade, nella rete, nelle turbolente regioni del Xinjiang e del Tibet, nella “città ribelle” di Hong Kong, nonché nella capitale Pechino, verranno messe in campo misure di sicurezza e di sorveglianza eccezionali.

Ma per mantenere la stabilità, il partito dovrà anzitutto sostenere l’economia in una fase di prolungato rallentamento della crescita. La Cina dovrebbe concludere il 2021 con un invidiabile +8 per cento, ma il suo prodotto interno lordo (che quest’anno ha fatto registrare +18,3 per cento, +7,9 per cento, +4,9 per cento nei primi tre trimestri), secondo le stime della Banca mondiale nel 2022 rallenterà al +5,1 per cento.

A pesare negativamente è una serie di fattori che abbiamo analizzato negli ultimi mesi su Domani: le continue chiusure per spegnere i focolai di Sars-CoV-2; la crisi del settore immobiliare, con al centro gli oltre 300 miliardi di dollari di debiti del colosso Evergrande; il rallentamento della domanda dall’estero a causa della pandemia; l’aumento dei costi delle materie prime.

Un aiuto a Pechino arriverà dall’entrata in vigore, dopo domani, della Regional Comprehensive Economic Partnership, l’accordo di libero scambio tra Cina, Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda e i dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del sud est asiatico (Asean) che durante la pandemia è diventata il primo partner commerciale della Repubblica popolare cinese avendo superato l’Unione europea.

Prima del XX Congresso arriveranno le XXIV Olimpiadi invernali, in programma a Pechino dal 4 al 20 febbraio 2022. Questo appuntamento ha assunto un valore che supera quello del semplice evento sportivo.

Da un lato il partito farà di tutto affinché i Giochi diventino l’ennesima occasione per dimostrare ai cinesi e al mondo la “superiorità” della sua strategia “contagi zero”, che però sarà messa a dura prova dallo sbarco, anche in Cina, della variante Omicron. Dall’altro lato andrà in scena il boicottaggio diplomatico annunciato dagli Stati Uniti e dai loro principali alleati per protestare contro le violazioni dei diritti umani nel Xinjiang e a Hong Kong.

Insomma – come già accaduto in altre fasi calde della storia del Novecento – le prossime Olimpiadi invernali rischiano di essere fortemente “politicizzate”.

Ma il fattore più importante, destinato a condizionare il futuro della Cina, è il suo rapporto con gli Stati Uniti. Riassumendo in maniera estremamente schematica le tappe precedenti, il disgelo è avvenuto quando Mao era ancora in vita, le relazioni ufficiali tra la Repubblica popolare cinese e gli Stati Uniti sono state allacciate nel 1979 e, in seguito, gli Usa sono diventati per la Cina una fonte sempre più importante di investimenti esteri diretti e di accesso a tecnologie avanzate.

La relazione bilaterale Cina-Usa (seconda e prima economia del pianeta) si è fatta sempre più articolata, comprendendo scambi rilevantissimi nell’ambito della ricerca, nonché il massiccio finanziamento cinese del debito pubblico Usa, società cinesi quotate a Wall Street e così via.

Tutto questo è stato messo in discussione da Trump, che ha scatenato una guerra commerciale-tecnologica contro la Cina proseguita con l’amministrazione Biden.

La maggior parte degli economisti continua a sostenere che un decoupling, una separazione – proprio per la portata e la complessità degli intrecci tra le due economie – sia impossibile, eppure, ad esempio, in ambito tecnologico il decoupling è già all’opera, attraverso una miriade di sanzioni e divieti di fornire alla Cina tecnologie “chiave”, come i microprocessori più avanzati. A farne le spese sono anche gli Usa ma, soprattutto, la Cina.

Nel dibattito in corso a Pechino su come affrontare la crescente ostilità degli Stati Uniti, negli ultimi giorni si è inserito Wang Xiaodong, accademico conservatore co-autore nel 2009 del best seller ultra-nazionalista Zhongguo bu gaoxing (La Cina non è felice), un saggio che invitava la leadership a ritagliare per il paese un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale.

La nuova via della Seta lanciata da Xi nel 2013, la crescente influenza di Pechino all’interno delle organizzazioni sovranazionali, la creazione da parte della Cina di “sue” istituzioni internazionali – come, ad esempio, la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali (Aiib) – sono solo alcune delle mosse che hanno spinto sempre più la potenza in ascesa in rotta di collisione con quella egemone, gli Stati Uniti.

Il piano per una nuova manifattura “Made in China 2025”, del 2015, e il XIX Congresso del 2017, quello in cui Xi proclamò una «Nuova era» della Cina, sono stati percepiti a Washington come manifestazioni di una vera e propria hybris cinese.

Ebbene Wang ora sostiene che la prima preoccupazione della Cina dovrebbe essere quella di evitare a tutti i costi un decoupling con gli Stati Uniti, anche se ciò dovesse significare andare a Canossa.

Wang – che ha oltre 2,5 milioni di follower su Weibo (il Twitter cinese) e che ha specificato che le sue valutazioni sarebbero condivise da alti funzionari, economisti e militari – suggerisce in pratica che Pechino torni alla strategia di Deng di «nascondere la forza, aspettare il momento».

Al contrario il trionfalismo e il disaccoppiamento proattivo avrebbero fuorviato il pubblico e causato «danni infiniti». Esprimendo una preoccupazione condivisa da molti economisti cinesi, Wang ha sottolineato che sarebbe «estremamente irrealistico» per la Cina raggiungere l’agognato catch-up economico e tecnologico, se Washington andasse avanti con la sua campagna di decoupling di know-how e tecnologie.

Nell’attesa di conoscere cosa dirà il Congresso anche sulla postura internazionale della Cina, quello di Wang appare più che altro come wishful thinking. Basta leggere questo bilancio del 2021 a opera del ministro degli Esteri, Wang Yi, appena pubblicato dall’agenzia Xinhua.

Sono tante le indicazioni che spingono a ritenere che la Cina sia nel pieno di una svolta “autarchica” che verrà confermata dal XX Congresso, e che Xi Jinping sia l’uomo che il partito ha scelto, da tempo, per accompagnarla. Al di là della retorica del “Nuovo modello di relazioni tra grandi potenze” promosso da Xi e compagni – Pechino scommette sempre più sulle proprie forze (mercato interno e innovazione autoctona) per sviluppare l’economia, e sul proprio sistema di governance imperniato sul Partito comunista per guidare l’economia, la società e l’esercito.

E il 2022 può essere l’anno che – con il XX Congresso e le prossime mosse dell’amministrazione Biden – ci dirà se la frattura tra Pechino e Washington è diventata insanabile.

Per questa settimana è tutto. Per osservazioni, critiche e suggerimenti potete scrivermi a: exdir@cscc.it

Weilai vi augura un felice 2022, vi invita a seguire il futuro della Cina su Domani, e vi dà appuntamento a giovedì prossimo.

A presto!

Michelangelo Cocco @classcharacters

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