Il fallimento della controffensiva di Kiev è stato causato dallo stillicidio dei nostri equipaggiamenti militari. Contro un nemico brutale come la Russia, l’obiettivo dell’occidente non può che essere la vittoria
Pare che di giorno in giorno l’occidente (termine largo ma ci dobbiamo accontentare) capisca sempre più di trovarsi su un precipizio, sebbene si rifiuti di volgere lo sguardo in basso per la paura di vedere cosa si trovi in fondo a questo abisso.
Facendolo, dovrebbe inevitabilmente rendersi conto di non assistere più a una mera guerra regionale intersovietica, come già in Cecenia o in Georgia, ma a una nuova guerra totale sul territorio europeo. Noi vorremmo attraversare questo vuoto per dimenticarlo, ma il problema è che nonostante qualsiasi desiderio di fuga – mentale o meno – il burrone ci ha già accolto.
Anime belle e analisti della domenica vorrebbero convincerci che il trascinamento verso il conflitto sia colpa di una nostra postura, giudicata eccessivamente “bellicista”. A più di due anni di distanza dalle prime colonne russe che hanno tentato di marciare su Kiev si tratta di una lettura nata da malafede, vanità o incompetenza di questi osservatori, visto che è invece evidente quanto siano stati i nostri gradualismi e le nostre esitazioni a permettere a Vladimir Putin di puntellare la sua traballante macchina da guerra.
Colpevole stillicidio
A dicembre del 2022 Kherson era stata già liberata. L’assedio di Kharkiv, spezzato. Il morale degli invasori, ai minimi storici. Ma dopo queste due batoste clamorose i russi hanno avuto comunque abbastanza tempo per trincerarsi nel resto del territorio che hanno rubato. Un errore da dilettanti, se il nostro obiettivo è davvero quello di aiutare l’Ucraina a liberarsi.
Il fallimento della controffensiva ucraina del 2023 non è stato figlio di una qualche mancanza di coraggio o di volontà da parte dei soldati di Volodymyr Zelensky in prima linea, ma dallo stillicidio dei nostri equipaggiamenti militari.
Abbiamo finalmente inviato i carri Leopard 2 quando ormai ci sarebbe stato bisogno invece degli aerei, rimanendo sempre un passo indietro rispetto alle esigenze dettate dall’evoluzione della dinamica dei combattimenti. Ogni mese di ritardo nell’arrivo degli aiuti occidentali è inoltre contato doppio, poiché ha permesso all’esercito Z di rinforzarsi per 30 giorni in più. Il medico ritroso ha reso la piaga purulenta e il cancro del ruscismo (il nome del fascismo russo) si è trincerato.
Non che il Cremlino abbia avuto la possibilità di ricostruire davvero le sue forze, dato che il suo esercito professionista è in stragrande maggioranza stato ucciso o reso invalido – compresi sette generali – nelle prime fasi di questo conflitto.
È però riuscito a rastrellare nuova carne a cui assegnare una divisa intanto che convertiva la sua economia nella produzione forsennata di armi, finanziandola persino a scapito della manutenzione dei riscaldamenti delle abitazioni dei moscoviti. Decisioni grossolane, ma efficaci come quelle dei generali russi che mandano all’assalto anche i carri armati T-55: ferrivecchi del 1958, che tuttavia rimangono delle moli ferree impossibili da fermare a mani nude.
Dobbiamo quindi almeno riconoscere a Putin di voler giocare la sua partita criminale fino in fondo, mentre in Europa si pensa che la guerra sia un pranzo di gala o – peggio – un gioco con regole certe. Da quando è sopravvissuto all’insurrezione del Gruppo Wagner di Evgenij Prigožin (grazie alla mediazione del furbo bielorusso Aleksandr Lukashenko), il leader russo pare poi rinato.
Manderebbe addirittura i suoi soldati a combattere coi bastoni e quelli lo farebbero volentieri perché «peggio di iniziare una guerra c’è soltanto perderla, quindi meglio vincerla» è il sillogismo prevalente nella testa di buona parte dei cittadini russi, come ammesso candidamente durante le interviste per strada.
La de-escalation fallita
Dall’altra parte del fronte nemmeno gli ucraini sono disposti a perdere questa guerra, sapendo cosa succederebbe alla loro cultura nel caso prevalessero i ruscisti. L’hanno visto per un decennio nel Donbas occupato e continuano a vederlo nelle terre in cui Mosca è dilagata con i libri in lingua ucraina bruciati, i programmi delle scuole modificati per indottrinare al suprematismo russo già da bambini e i dissidenti espulsi o deportati.
Chiunque combatterebbe con tutte le sue forze per impedire un futuro di questo tipo, tranne forse quei pochi (si spera) che si lamentano pelosamente del mancato pacifismo di chi si difende. Dimenticandosi che non è la pecora a valle a intorbidire l’acqua del lupo famelico. Così agli ucraini non rimane che adoperarsi per quello che possono, progettando di assemblare un milione di droni lungo il 2024 e costruendo le loro linee difensive.
Noi invece ergiamo una difesa psicologica di occhi sbarrati, rivolti esclusivamente all’altro capo dell’abisso dove si troverebbero le parole magiche degli imbonitori: “trattativa”, “pace”, “fine della guerra”.
Discorsi sconclusionati che ignorano come appunto siamo già ben dentro il burrone, trascinati lì della continua escalation russa. Un parossismo permesso in buona parte dai nostri – falliti – tentativi di de-escalation. E il sangue che Mosca versa sulla steppa ucraina – 300mila almeno stimati fra morti e feriti – bagna tutti noi nel crepaccio e soprattutto chi fa finta che il problema non gli appartenga, o che abbia una soluzione facile. Putin, al contrario in modalità oltranzista per le elezioni imminenti, si sente tanto sicuro da stabilire finalmente un piano di vittoria pubblico.
Ce l’ha illustrato con una mappa molto chiara Dmitrij Medvedev, l’ex presidente russo che ha sposato in pieno il personaggio dell’estremista di regime: raffigura un’Ucraina smembrata e umiliata, ridotta a una “riserva indiana” simbolica intorno a Kiev. «Un bambino può essere felice anche in una riserva» potrebbero pensare alcuni, capaci di dire già castronerie ben peggiori.
Intanto il famoso sermone di Martin Niemöller (Quando presero gli ebrei io non dissi nulla perché non ero ebreo et cetera) pare dimenticato o non declinabile per gli ucraini. Quando invece il dramma di questo popolo è sia epocale che apocalittico, stretto tra resistenza e assimilazione.
Così cerchiamo di mantenere, con l’autoipnosi, l’illusione che questa guerra non ci appartenga davvero. Che tanto, anche se gli ucraini perdono, sono in ultima analisi soltanto affari loro.
Come gli Alleati
Fanno comodo in questo cortocircuito mentale certi tabù di Olaf Scholz («nessun’arma tedesca deve cadere in Russia») e i recenti inviti alla resa del papa, tanto quanto le affabulazioni dei super ottimisti che non notano come la strategia bellica russa si stia adattando ai suoi obiettivi massimalisti.
Chi relega al fondo delle novità la distruzione del primo lanciamissili motorizzato Himars o di quelli che (probabilmente) erano due preziosi lanciatori antiaerei Patriot è, poi, una parte opposta e complementare di questo atteggiamento dissociativo.
Se leader europei come il francese Emmanuel Macron, il britannico Rishi Sunak o il ceco Petr Pavel provano a rompere l’incanto con le loro dichiarazioni, sembrano raccogliere al massimo soltanto sbalordimento dall’intorpidita opinione pubblica occidentale.
Che forse dovrebbe imparare qualcosa dai russi: se Putin ci ha trascinato in una guerra, sarebbe meglio vincerla e prima che il conflitto diventi la nostra nuova normalità.Per fuggire quindi da questo burrone di morte e disperazione non è possibile semplicemente ignorare il vuoto sotto i nostri piedi, camminando nell’aria senza degnare il problema di uno sguardo.
Queste sono tecniche da cartoni animati, e anche in quelli il coyote prima o poi cade giù. Chiunque proponga tali scorciatoie – mascherandole da pacifismo o ammantandole di spirito caritatevole – non fa un buon servizio a nessuno, se non a chi al Cremlino gestisce l’intensità di questo massacro.
Bisogna invece equipaggiarsi di rampini e scarponi per risalire dal baratro della guerra con la Russia e ritornare alla pace in Europa. Una scalata in cordata dove siamo tutti sospesi già adesso. Noi, gli ucraini, la guerra e la pace.
Con l’obiettivo della vittoria su un nemico brutale, da raggiungere superando la sua capacità di produrre e utilizzare armi. Come già fecero gli Alleati per debellare i fascismi dello scorso secolo.
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