- Nell’ottica di un ritorno del nucleare si stanno muovendo le compagnie di stato di Pechino, pronte a fare dei loro nuovi reattori l’ennesimo prodotto d’esportazione made in China.
- Hualong One di terza generazione verrà probabilmente installato in una centrale nella contea inglese dell’Essex. Entro il 2030, Pechino prevede di costruire una trentina di impianti atomici nei paesi partner dalla nuova via della Seta (Bri), come il Pakistan e l’Argentina.
- Le compagnie cinesi già pubblicizzano Hualong One come “a prova di tsunami”: installato a una dozzina di metri sul livello del mare, sarebbe in grado di resistere all’impatto di un attacco terroristico con un jet di linea, che danneggerebbe solo le massicce pareti esterne.
Sono più gravi le conseguenze dei cambiamenti climatici o quelle dell’installazione di nuovi impianti atomici “sicuri”? Di fronte a questo bivio - scommettono i fautori del nucleare - sempre più governi opteranno per le centrali di “terza generazione”, perché l’intermittenza dell’energia eolica e solare ne rende tuttora difficile l’assorbimento e la gestione da parte delle reti elettriche. E proprio nell’ottica di un ritorno del nucleare si stanno muovendo le compagnie di stato di Pechino, pronte a fare dei loro nuovi reattori l’ennesimo prodotto d’esportazione made in China.
I reattori cinesi
Il 7 febbraio scorso l’autorità di controllo britannica ha dato l’ok all’installazione di uno Hualong One di terza generazione nella centrale di Bradwell B, che la China General Nuclear Power Group (Cgn) vorrebbe costruire assieme al colosso transalpino Électricité de France (Edf).
Cgn, che nel Regno unito ha altre due partnership con Edf, vuole fare dell’impianto nell’Essex una vetrina europea per il suo reattore di terza generazione, ma deve fronteggiare la durissima opposizione del governo conservatore, che per la decarbonizzazione ha puntato decisamente sul nucleare, il cui sviluppo però non vuole affidare alla Cgn, nella lista nera Usa, accusata di furto di segreti militari.
Il 3 febbraio scorso, l’altro principale colosso di stato del settore, la China National Nuclear Corporation (Cnnc), ha firmato il suo secondo accordo internazionale, con la Commissione nazionale dell’energia atomica argentina, per uno Hualong One da installare in quella che sarà la quarta centrale del paese, Atucha III (nella provincia di Buenos Aires), la cui costruzione partirà alla fine di quest’anno, con un costo stimato di otto miliardi di dollari.
Il 4 marzo scorso è stato allacciato alla rete elettrica K3, sesto impianto atomico del paese, alimentato dal secondo dei due reattori (costo complessivo dieci miliardi di dollari) che la stessa Cnnc ha costruito nella metropoli di Karachi. Entro il 2030, Pechino prevede di costruire una trentina di impianti atomici nei paesi partner dalla nuova via della Seta (Bri), come il Pakistan e l’Argentina.
A prova di tsunami
Nelle ultime settimane, undici anni dopo il disastro di Fukushima, le autorità locali hanno vietato la vendita di pesce proveniente dalle acque davanti alla centrale nipponica, dopo che vi era stato rilevato un livello di radioattività 14 volte più alto di quello consentito.
Un monito, l’ennesimo, sugli effetti di lunga durata degli incidenti nucleari. La fusione, nel marzo 2011, dei noccioli di tutti e tre i reattori dell’impianto giapponese suscitarono enorme clamore anche Cina, tanto da fermare per anni la costruzione di nuovi impianti.
Così il XIII piano quinquennale (2016-2020) mancò l’obiettivo dei 58 giga watt di capacità nucleare installata, fermandosi a 51. Ora si punta a raggiungere la soglia dei 70 giga watt al termine dell’attuale piano (2021-2025).
Lo stallo è stato superato anche grazie all’istituzione, un anno fa, di un comitato di 42 membri (funzionari governativi, rappresentanti dell’industria nucleare, accademici, ricercatori) con il compito di stabilire standard di sicurezza più avanzati.
Le compagnie cinesi già pubblicizzano Hualong One come “a prova di tsunami”: installato a una dozzina di metri sul livello del mare, sarebbe in grado di resistere all’impatto di un attacco terroristico con un jet di linea, che danneggerebbe solo le massicce pareti esterne.
Nella Repubblica popolare cinese il primo Hualong One era stato acceso il 30 gennaio 2021 nella metropoli di Fuzhou (nella provincia orientale del Fujian), dove - secondo i dati della Cnnc - è in grado di generare ogni anno 10 miliardi di kWh di elettricità ed evitare l’emissione di 8,16 milioni di tonnellate di diossido di carbonio.
«Grazie all’entrata in funzione di Hualong One, la Cina è ora all’avanguardia nella tecnologia nucleare di terza generazione nel mondo, insieme a paesi come Stati uniti, Francia e Russia», ha esultato il presidente di Cnnc, Hu Jianfeng.
In effetti, con Hualong one la Cina è arrivata prima nella commercializzazione di quello che tecnicamente viene definito “reattore nucleare ad acqua pressurizzata di terza generazione”, progettato per rimanere in funzione per 60 anni. Tutte le sue componenti chiave sono “made in China”, ed è destinato a fare concorrenza alla tecnologia Epr (Evolutionary pressurized reactor) sviluppata in Europa, e alla AP1000 della statunitense Westinghouse.
«Così come è leader nell’installazione di fonti rinnovabili - cioè idroelettrico, eolico e solare - allo stesso modo la Cina ha il più ambizioso programma di sviluppo di energia nucleare al mondo», spiega il professor Giacomo Luciani, consigliere scientifico del master in “international energy” della Paris School of International Affairs.
Costi bassi
Luciani ricorda che in Cina al momento sono 50 reattori nucleari in produzione e 13 in costruzione, alcuni di questi ultimi con tecnologie innovative (High-temperature reactor-pebble bed module; reattori al torio). Luciani sottolinea inoltre che «poiché nella tecnologia nucleare si impara costruendo, la Cina avrà ben presto un vantaggio tecnologico, assieme alla Russia» e che «i costi per i cinesi sono bassi, perché vengono fabbricati più reattori dello stesso tipo (in serie, anche se piccoli) e in tempi molto più rapidi, anche a causa della scarsa opposizione sociale consentita».
Secondo stime di Bloomberg e della World nuclear association, alla Cina costruire una centrale costa un terzo rispetto agli Usa e alla Francia. Anche perché gli interessi per finanziare i progetti in Cina sono quelli (molto più bassi) delle banche di stato.
E così, il 20 dicembre scorso, è stata collegata alla rete anche la centrale di Shidaowan (nella provincia dello Shandong), alimentata dall’unico reattore raffreddato a gas (Htgr) attualmente operativo nel mondo, che potrebbe diventare il nucleare di quarta generazione.
Il condizionale è d’obbligo perché gli Htgr, costruiti in Germania e negli Usa negli anni Sessanta-Ottanta, furono infine abbandonati per i continui blocchi e malfunzionamenti, nonostante fossero considerati i più sicuri in quanto - in caso di incidente - non andrebbero incontro alla fusione del nocciolo né a larghe fuoriuscite di radioattività.
Un percorso obbligato
Per liberarsi del triste primato di primo emettitore globale di gas serra, la Cina punta sulla progressiva diminuzione della dipendenza dal carbone e, parallelamente, sull’aumento delle rinnovabili e sul nucleare.
Si tratta di una strada obbligata, dal momento che il paese punta a rimanere una potenza industriale e, nello stesso tempo, a rispettare l’impegno preso davanti alle Nazioni unite di raggiungere il picco delle emissioni di CO2 nel 2030 e la neutralità carbonica nel 2060, quando dovranno essere state spente quasi tutte le circa 3mila centrali a carbone attualmente operative.
L’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) crede nella road map di Pechino, che prevede nei prossimi decenni l’aumento di sette volte dell’energia generata da rinnovabili, che nel 2060 dovrebbe raggiungere l’80 per cento del mix energetico nazionale.
A quel punto - grazie anche all’efficientamento energetico e alle nuove tecnologie di cattura del diossido di carbonio - le emissioni di gas serra di origine industriale dovrebbero essere ridotte del 95 per cento rispetto ai livelli attuali.
Secondo le stime di Bloomberg, questo percorso prevede anche, tra il 2020 e il 2035, la costruzione di 150 piccole centrali atomiche, per un investimento complessivo di 440 miliardi di dollari. La percentuale del nucleare nel mix energetico nazionale dovrebbe passare dal 4,8 per cento (2019) al 7,3 per cento nel 2040.
La Cina ha scoperto molto tardi l’energia nucleare: la prima centrale, quella di Qinshan (nella provincia orientale dello Zhejiang) entrò in funzione il 15 dicembre 1991. Il più vecchio impianto europeo, quello svizzero di Beznau, era stato inaugurato oltre vent’anni prima, il 9 dicembre 1969. Attualmente la Cina - il paese più popoloso del mondo - è terza per capacità di generare energia dalla fissione atomica, dietro a Stati uniti e Francia.
Ma la crisi energetica globale, l’accelerazione impressa dalle istituzioni internazionali al percorso di decarbonizzazione, l’inserimento nucleare come «fonte utile alla transizione ecologica» nella tassonomia recentemente varata dalla Commissione europea, la riduzione dei costi e l’aumento della sicurezza degli impianti made in China: tutto sembra giocare a favore della scommessa dei colossi di stato del nucleare cinese.
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