- La guerra dei vent’anni in Afghanistan è figlia di quarant’anni di lotta al terrorismo.
- Da molto prima dell’11 settembre 2001 si sono tentate diverse strategie di contrasto a un fenomeno frammentato che si è incarnato in diverse forme, dal terrorismo palestinese al califfato dell’Isis passando per il franchise “globalista” di al Qaida.
- Il risultato è stato la creazione di nuovi spazi di guerra e anarchia occupati da nemici allo stato gassoso. Occorre ripensare tutta la strategia antiterrorista, dal fallimento delle guerre alla capacità rigenerativa del jihad.
Riflettere sui vent’anni di guerra in Afghanistan significa ripensare tutta la strategia antiterroristica messa in campo dall’occidente in questi lustri. La lotta contro il terrorismo esisteva già prima dell’11 settembre 2001, ma era del tutto diversa. Si trattava innanzi tutto di affrontare i gruppi armati palestinesi, come accadde con i tragici fatti delle Olimpiadi di Monaco nel 1972 e in tante altre occasioni come l’attacco a Fiumicino del 1973, i numerosi dirottamenti aerei, quello dell’Achille Lauro del 1985 o gli attentati di Settembre nero.
La reazione fu la creazione dei corpi speciali di polizia in tutta Europa e la nascita dell’intelligence antiterrorista: ai governi diventava sempre più chiaro che battere un fenomeno internazionalizzato era ben diverso che contrastare i terrorismi interni come la Raf tedesca, l’Eta basca o le Br italiane, che pur avevano i loro addentellati.
Ma i contatti che avevano gli estremisti delle varie fazioni palestinesi con i paesi del blocco dell’est e con alcuni paesi arabi del fronte del rifiuto rendevano il compito di batterli molto più arduo.
Il 1979 è certamente un anno spartiacque: la rivoluzione islamica fa temere che l’Iran possa diventare una sorta di centrale operativa aperta a tutti gli eversori, anche se ciò non avvenne in maniera sistematica.
Nello stesso anno l’attacco alla moschea della Mecca – risolto solo grazie all’intervento di forze speciali straniere – fa compiere all’Arabia Saudita una svolta strategica con l’inizio della politica entrista nei confronti dei gruppi armati islamisti, per cercare di contenere il contagio.
È da quel momento che Riad inizia a finanziare molti gruppi con l’unico obiettivo di tenere l’eversione lontana da casa. Infine il 1979 è anche l’anno dell’intervento sovietico in Afghanistan, che provoca la nascita dei movimenti armati mujaheddin (sostenuti dagli Usa), i quali diverranno la nave scuola per numerosi terroristi successivi, come al Qaida ma anche il Gia algerino.
Il jihadismo transnazionale
Secondo gli specialisti Marc Hecker e Elie Tenenbaum autori del libro La guerra dei 20 anni, il jihad afghano è il punto d’inizio del jihadismo transnazionale come lo osserviamo oggi, mentre il terrorismo palestinese non ha avuto emuli perché troppo legato alla sola causa nazionale.
L’intifada del 1987 rappresenta la svolta dell’azione palestinese assieme al manifestarsi di Hamas nata lo stesso anno: dopo l’istituzionalizzazione di al Fatah, avviene la contaminazione dell’ideologia islamica che fonde la lotta d’indipendenza con parte degli elementi del jihad globale.
Va detto che finché è durata la Guerra fredda è stato molto difficile ottenere una condanna collettiva del terrorismo alle Nazioni unite: ognuno aveva i suoi “amici” da proteggere. Soltanto successivamente è maturata una logica comune che, malgrado le sue ambivalenze, unisce gli stati nel ripudio di tale forma di violenza a prescindere dall’agenda che si ripromette di mettere in atto.
L’11 settembre 2001 è in questo senso forse la data più emblematica: in quell’occasione quasi tutti i paesi delle Nazioni unite si strinsero agli Stati Uniti per denunciare gli attentati, inclusi Russia, Iran, Pakistan, Libia, palestinesi e così via.
Soltanto nell’indistinto universo jihadista ci si felicitò con al Qaida, fino ad allora sigla quasi sconosciuta. Tale quasi unanimità antiterrorista possiede anche un suo lato ambiguo: ogni repressione contro minoranze o indipendentismi da parte di uno stato viene classificata sotto la menzione di lotta al terrorismo. A
ciò fa eco il dibattito interno nel mondo jihadista: l’annosa questione se la lotta debba essere globale o locale. Ci sono movimenti armati totalmente dediti ad una causa locale come gli stessi talebani, Abu Sayaf nelle Filippine, i gruppi ceceni (e forse uiguri), Hamas e così via.
Vi sono altri movimenti interessati molto di più alla causa globale, come al Qaida o le varie Jihad islamiche, i quali cercano continuamente di impiantarsi altrove. Ciò che accade attualmente nel Sahel corrisponde a tale tentativo, anche se il radicamento in nuovi territori provoca senz’altro delle ibridazioni, come ad esempio quella con la causa etnica tuareg.
Infine vi è l’opzione stato islamico (Daesh) a cui non interessano le frontiere ma ambisce al territorio: tenta cioè di fondare una nuova entità califfale. Tra le numerosissime versioni di tale universo talvolta vi può essere trattativa ma quasi sempre c’è aspra contesa, come accade in Afghanistan tra Isis e Talebani o nel Sahel tra Isis e al Qaida. La posta in gioco è sempre il “vero islam”: chi possiede cioè la versione più pura della religione.
Interpretazioni in conflitto
La tendenza jihadista nel suo complesso si allarga egemonizzando l’ambito dell’eversione globale, ma allo stesso tempo si frammenta e si entropizza con molteplici lotte intestine ed una complessa interazione con le popolazioni locali. L’interpretazione del fenomeno divide gli studiosi: secondo l’islamologo Gilles Kepel, consigliere del presidente francese Emmanuel Macron, siamo entrati nell’età del «jihad di atmosfera», un universo gassoso e poco strutturato in cui – almeno in occidente – si diventa jihadisti senza organizzazione ma non senza essere un reale pericolo.
D’altronde la capacità jihadista di passare dallo stato solido (come l’Isis), a quello liquido (al Qaida) o gassoso (i lupi solitari) è ormai universalmente accertata. Parallelamente Olivier Roy, forse il miglior conoscitore del tessuto socio-politico afghano e studioso dell’islam globale, sostiene che il radicamento jihadista è provocato soprattutto dall’allargarsi delle diseguaglianze di ogni tipo e delle aree di assenza di diritto dovute alla spinta dell’economia iperliberista. Secondo Roy farsi jihadisti diviene l’unica forma possibile di protesta e di ribellione.
Secondo gli autori della guerra dei venti anni, l’ultima fase del jihadismo ha seguito vari momenti. Dall’attacco alle Torri gemelle del 2001 fino al 2006 è stata l’epoca dello choc. L’attentato venne paragonato a Pearl Harbor del 1941: si inizia così a parlare di “guerra al terrorismo”, una novità assoluta.
Fino ad allora si faceva il contrario, cercando di diminuire l’impatto delle azioni terroriste: da ora in poi vengono enfatizzate perché costituiscono la ragione stessa per cui occorre andare in guerra.
Dopo l’appello alla guerra, che si è trasformato in vari interventi amati tra cui i conflitti d’Afghanistan e Iraq, segue una fase che va all’incirca dal 2006 al 2011, in cui si tenta di stabilizzare il caos che i conflitti hanno provocato.
È un’epoca di falsa calma in cui anche i jihadisti si riorganizzano e tentano di pianificare una reazione popolare contro le guerre dell’occidente. In tale periodo i Talebani si ricostruiscono creando una fitta rete di alleanze locali sul terreno. È anche il periodo dell’incubazione dell’Isis in Iraq e del jihadismo nel Sahel.
Le primavere arabe
Segue la fase delle primavere arabe: un fenomeno popolare diffuso e spontaneo in cui i gruppi armati, inizialmente esclusi, cercano di entrare dirottando la lotta ai propri scopi. In questo periodo si allarga la divaricazione tra le due anime dell’islam radicale, i salafiti e Fratelli musulmani.
Al contrario dei primi, questi ultimi vedono di buon occhio le rivoluzioni della primavera araba perché nel loro armamentario ideologico hanno inserito almeno una delle regole di base della democrazia: quella della forza della maggioranza.
Buoni conoscitori delle loro società, i Fratelli musulmani intravvedono nelle primavere la possibilità di andare al potere per mezzo delle elezioni. Il loro modello è la Turchia di Erdogan. Così in effetti avviene in Egitto e in Tunisia, pur con due i epiloghi totalmente diversi: nel primo caso la reazione del sistema economico-militare li estromette manu militari malgrado abbiano vinto nelle urne.
Questo fatto contribuisce ad aumentare l’avversione per gli occidentali che non reagiscono (come non avevano reagito in Algeria all’inizio degli anni Novanta). A Tunisi invece i Fratelli musulmani ottengono buoni risultati e partecipano a vari governi di coalizione, anche se l’attuale fase di sospensione del parlamento da parte del presidente Saied apre grossi dubbi sul futuro.
Dal canto loro i salafiti rimangono ancorati all’idea del governo dei giureconsulti, che può incarnarsi in forme autoritarie e financo totalitarie. Inoltre, malgrado l’uccisione di Bin Laden, i jihadisti dimostrano una sorprendente capacità di rigenerarsi.
La fase successiva è quella dell’emersione del califfato dello Stato islamico, 2014-2017. La mossa di Abu Bakr al Baghdadi si rivela simbolicamente una forte sfida al mondo degli ulema sunniti, al punto di spaccare il mondo teologico musulmano al suo interno.
La creazione dell’Isis diviene un potente messaggio propagandistico comunicato attraverso i social, al punto di attrarre a sé decine di migliaia di foreign fighter musulmani di ogni origine (circa 40mila), assieme a tanti occidentali (6mila sono europei), che accorrono nella Siria devastata a combattere fianco a fianco.
Il jihad si è globalizzato e tutte le frontiere culturali saltano: si può essere jihadista anche se non si viene dall’ambito musulmano. Nemmeno al Qaida aveva osato tanto né mai goduto di così grande popolarità. È certo che partecipare ad un’avventura comune alla luce del sole attira di più che far parte di una sorta di setta militare segreta.
Resta comunque il fatto che a migliaia partono sapendo di rischiare la vita e che il loro sogno presto si trasforma in incubo terminando nel sangue e nella disfatta.
Isis e islam
Come conseguenza di tali evoluzioni, la guerra all’Isis diviene in occidente quasi una guerra contro l’islam, solo in parte inteso nella sia versione più estrema. Nei media e nelle società occidentali l’antipatia e il sospetto nei confronti dei musulmani cresce a dismisura.
Tale atteggiamento si riverbera in tutto il mondo musulmano, provocando la reazione opposta di molti giovani –ragazzi e ragazze – che vedono nel califfato la risposta alle loro umiliazioni. Lo scontro si polarizza. In tale contesto comunicatori e reclutatori dell’Isis hanno gioco facile nello spiegare i molti fallimenti personali dei loro adepti come il risultato della volontà aggressiva dell’occidente anti islamico che impedisce ogni integrazione e ascesa sociale.
Mentre prima chi arruolava nei gruppi radicali chiedeva ai giovani di abbandonare la dissolutezza dei costumi occidentali per darsi alla vita sobria e onesta del combattente, ora con l’Isis si preferisce insistere sul fatto che è la società ad averti abbandonato, a non volerti, ad averti già espulso mentre il califfato di offre moglie, casa, elettrodomestici e anche un salario.
L’unica risposta valida è dunque partecipare a costruire tale nuovo stato, islamico ovviamente. In questo modo il jihad riesce ad attecchire sempre di più in ambienti culturalmente estranei alla cultura musulmana, dimostrando la tesi dell’islamizzazione della rivolta (della protesta o del disagio) sostenuta da Olivier Roy.
L’ultimo stadio del jihadismo è quello che stiamo vivendo dal 2018 ad oggi, che gli esperti chiamano “la coda della cometa”, ossia l’espandersi del modello jihadista un po’ dovunque, come si è detto.
Laddove esiste un vuoto di potere o uno stato fallito, abbandono sociale o disastro economico, è facile che nasca una ribellione, non etnica o ideologica come in passato ma ispirata ai canoni del jihadismo in una delle sue possibili formulazioni.
Certamente in questa fase gli eventuali santuari (come il nord Mali o l’Afghanistan ecc.) divengono dei luoghi molto pericolosi. L’obiettivo dei jihadisti per il prossimo futuro è quello di moltiplicare le zone in cui gli occidentali hanno difficoltà ad entrare. Non si tratta soltanto di evitare l’arrivo dei militari ma delle persone tout court: creare cioè degli spazi geografici del tipo hinc sunt leones, che è sconsigliabile frequentare.
Tale perdita di controllo del territorio da parte della comunità internazionale in favore del vuoto e della minaccia di violenza, anticipa un tempo nuovo in cui il jihad potrà trionfare. Secondo l’ideologia radicale islamista si tratta di creare zone di dar el harb cioè di guerra e di anarchia, per poi farle confluire in seguito nel dar el islam, cioè la casa dell’islam.
L’aumento delle zone insicure si nutre di tutto e manipola ogni cosa, tendendo a rendere off limits e impenetrabili intere regioni agli occidentali in genere (agli umanitari, alle ong, alle chiese). Si tratta di un’evoluzione della teoria dello stato dell’Isis che lascia dietro di sé rovine e morte di cui poi si nutre.
È un sistema antropofago: oggi i campi degli ex combattenti dell’Isis, controllati per lo più dai curdi, ci rimandano un’immagine di una generazione perduta che nessuno vuole più ma da cui potrà nascere la prossima rivolta.
I detonatori
Ognuno di questi momenti si appoggia su vicende che fanno da detonatore. Certamente uno dei più potenti è stato la guerra in Iraq, destabilizzando tutto il medio oriente come mai era accaduto prima. La prima guerra del Golfo non era giunta a tal punto, prova ne sia che anche la Siria di Assad aveva inviato un contingente a combattere al fianco degli americani.
Soltanto l’Olp di Arafat era restata al fianco di Saddam e della sua lotta per annettere il Kuwait. La guerra del 2003 è stata invece come una bomba a frammentazione, con conseguenze devastanti e durevoli nel tempo, andando ad intaccare l’intimo stesso della comunità islamica, come la divisione tra sunniti e sciiti.
Con quel conflitto l’occidente si è privato di interlocutori difficili ma ancora possibili, come lo stesso Saddam, Assad, successivamente Gheddafi e così via. A questo punto gli unici leader arabi rimasti sono quelli degli stati del Golfo, i quali notoriamente non rappresentano la sensibilità maggioritaria del mondo arabo.
Ad esempio l’opinione araba non ha ancora capito perché mai l’occidente ha sostenuto in Iraq gli sciiti mentre in Siria ha fatto l’opposto. Nel caos gli ideologi americani del nation building hanno impostato una gestione post conflitto disastrosa, distruggendo ogni struttura statale preesistente (regime change) e affidandosi totalmente all’ideologia liberista del grande mercato della globalizzazione.
In conclusione né il jihadismo di marca Isis né l’esportazione della democrazia di marca repubblicana Usa sono riusciti ad imporsi, ma entrambi hanno contribuito allo sfaldamento del già fragile tessuto socio-culturale ed economico di buona parte del medio oriente e dell’Asia centrale islamica.
La cosa grave è che l’occidente non è mai riuscito a capitalizzare gli errori dei jihadisti. Paradossalmente si potrebbe dire che entrambi hanno contribuito alla creazione di aree senza istituzioni e senza stato.
Per questo al Qaida, che non ha mai condiviso la versione Isis del jihad, ha assunto proprio i questi ultimi anni una posizione molto pragmatica, cambiando spesso di nome per divenire quasi alleata dell’occidente in Siria ed ottenere dalla Turchia una forma di riconoscimento indiretto nella gestione dell’enclave di Idlib.
Rimane assodato tuttavia che ogniqualvolta i jihadisti hanno cercato di forzare la mano creando una specie di proto-stato, la reazione internazionale è stata decisa e unanime. Il problema è cosa fare con gli stati già esistenti che assumono l’ideologia jihadista in tutto o in parte.
Già sappiamo quanto sia sospettosa la comunità internazionale nei confronti dell’Iran: nemmeno cinesi o russi si fidano degli ayatollah. Medesimo è la paura sollevata ora dalla vittoria talebana anche se si può sperare che i nuovi padroni di Kabul cercheranno di non commettere gli stessi errori del 1996-2001.
Ed è proprio per questo che l’Isis attacca col terrore in Afghanistan, cercando di aprire falle o provocare reazioni inconsulte. Ecco perché trattare oggi con il regime talebano è un interesse collettivo. La strategia italiana di coinvolgere in tale negoziato tutto il G20 permette di controllare le fughe in avanti e di socializzare le perdite della sconfitta di queste settimane.
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