La morte di Nasrallah è un colpo durissimo per Hezbollah e un successo per il premier israeliano. Ma le eliminazioni mirate vanno lette per quelle che sono: un avviso a Khamenei e a Teheran
Israele colpisce il bersaglio grosso Nasrallah. Colpo durissimo per il Partito di Dio che, in pochi giorni, viene decapitato nel suo vertice politico e militare. Finisce così, nel sottosuolo di un edificio alla periferia sud di Beirut, sventrato dalle bombe anti bunker dell’Idf, il lungo regno del capo di Hezbollah.
Un leader che, in trentadue anni, ha trasformato il gruppo da piccola formazione armata ispirata al khomeinismo iraniano in forza di governo e architrave del sistema politico su base confessionale libanese. E, che, dopo il “vittorioso” esito della guerra del 2006 – in realtà una “non sconfitta” – si è sempre più libanizzata, accentuando il suo profilo islamonazionalista. Identità che gli ha consentito di tenere alta la bandiera della lotta all’«entità sionista» battendosi contro Israele in nome del ripristino della sovranità territoriale del Paese dei Cedri in una ristretta area di frontiera.
Alimentare il conflitto
Risultato eclatante, anche sul piano interno, quello colto da Benjamin Netanyahu che, dopo il durissimo e inaudito discorso alle Nazioni unite, tacciate di essere una «palude antisemita», seppellisce qualsiasi ipotesi di soluzione diplomatica al conflitto lungo la Linea Blu invocata da Stati Uniti e Francia con il sostegno di paesi europei e arabi.
Di certo, l’importante “trofeo” messo nel carniere in questi giorni di intenso safari militare, non spegne ma alimenta il conflitto. Hezbollah è in situazione critica – la catena di comando è stata sconvolta prima dalle operazioni cercapersone e walkie talkie , ora dai raid aerei, soprattutto da quello decisivo nel quartiere di Haret Hreik che ha portato alla morte del suo leader: ennesima conferma della capacità di infiltrazione del Mossad nelle smagliate reti di sicurezza della milizia sciita.
Il Partito di Dio ci metterà tempo a riorganizzarsi, anche se a essere presto nominato successore potrebbe essere Hashem Safieddine, già braccio destro di Nasrallah, legato all’Iran non solo per gli studi a Qom ma anche perché il figlio ha sposato la figlia del generale Qassem Soleimani, comandante della Forza Quds iraniana ucciso in Iraq nel 2020 dagli Usa.
Gli errori del 2006
Hezbollah, come Hamas, non è un ristretto gruppuscolo ma l’espressione politica maggioritaria della comunità sciita libanese. E finché la sua ideologia non crolla per esaurimento della spinta “propulsiva” islamista, non è facilmente estirpabile. Mediante le clamorose eliminazioni mirate e le massicce operazioni aeree, Israele ha cercato di non ripetere gli errori compiuti nel 2006.
Se entrerà in Libano per sospingere oltre il fiume Litani le milizie dal vessillo giallo, o avanzerà in profondità – la vera fascia di sicurezza sarebbe distruggere durevolmente il nemico mettendo gli “stivali sul terreno” nella roccaforte di Dahieh a Beirut – nell’intento di garantirsi un lungo periodo di “tranquillità” all’insegna dello slogan “Gaza senza Hamas, Libano senza Hezbollah”, preferisce avere davanti una forza senza una collaudata linea di comando che, contrariamente a quanto avvenuto diciotto anni fa nel corso della Guerra dei Trentaquattro giorni, potrebbe si combattere come allora nei villaggi fortificati del sud ma senza una precisa opzione che non sia quella di votarsi al “martirio”.
Anche se, prima della prova del fuoco sul terreno, Tsahal non può effettivamente essere certo – come ha mostrato la salva di missili Fadi-3 lanciati dal Partito di Dio, poco dopo il “trionfale” raid aereo su Beirut, sulla base militare di Ramat David nei pressi di Haifa – che la milizia sciita non si sia compartimentata in modo tale da non inibire, nonostante i gravi colpi subiti, una certa capacità di reazione. In tal caso Hezbollah, che non può contrastare la guerra aerea, potrebbe infliggere dure perdite all’Idf. Nel sud del Libano i tunnel sotterranei sono assai più insidiosi di quelli di Gaza, già sperimentati con esiti non troppo fausti dagli israeliani.
Messaggi a Teheran
Nel discorso al Palazzo di Vetro Netanyahu è stato minaccioso contro i nemici proclamati e sferzante verso i “treguisti” o quanti accusa di essere fautori di una pace dell’estinzione, insomma verso i molti che non condividono la sua bellica concezione del mondo.
Il poco invisibile convitato di pietra in riva all’Hudson era l’Iran. Tanto che Bibi ha indicato come responsabile di tutto Teheran, verso cui sono stati palesemente diretti i colpi che hanno condotto alla funerea uscita di scena di Haniyeh e Nasrallah. Eliminazioni mirate che vanno lette per quelle che sono: un avviso allo stesso Khamenei se oserà attaccare, anche solo per rappresaglia, Israele. Non a caso il leader iraniano è stato immediatamente trasferito in un «luogo sicuro».
Del resto, il leader di Hamas è stato colpito nella capitale iraniana in un compound dei Pasdaran; quello di Hezbollah – formazione autonoma ma fondata da chierici formatisi nei seminari del clero rivoluzionario iraniano, religiosamente affine e sorretta finanziariamente e militarmente da Teheran – guidava un movimento essenziale nella proiezione geopolitica dell’asse sciita guidato dall’Iran. La ventilata possibilità che l’Iran possa inviare truppe in Libano e al confine con il Golan occupato risponde, per Teheran, non solo all’esigenza di salvaguardare il Partito di Dio ma anche quella stessa proiezione.
Cosa rimane della diplomazia in queste convulse giornate? Poco o nulla. Anche perché, ancora una volta, l’America confessa l’impotenza davanti all’irriducibile Netanyahu confermando, anche in questo caso, che Washington non era stata avvisata, se non all’ultimo istante, dell’intento di uccidere Nasrallah.
Situazione del quale prende atto anche il responsabile della politica estera Ue Josep Borrel che constata come «nessuno» pare in grado di fermare Netanyahu, nemmeno gli Stati Uniti. Realistica quanto poco consolante ammissione che rivela come siano sempre più spalancate le porte di una guerra più vasta.
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