Francesco non usa eufemismi e chiede alla comunità internazionale di appurare se le accuse contro Ia condotta di Israele nel conflitto formulate da giuristi e organismi internazionali siano fondate. La politica aggressiva di Netanyahu sta incrinando anche i rapporti fra Chiesa e mondo ebraico. L’ambasciata israeliana: «Chiamare l’autodifesa con altri nomi significa isolare lo stato ebraico»
Il papa ha attaccato duramente Israele sul conflitto in corso in Medio oriente: lo ha fatto sollevando un interrogativo pesante relativo al fatto che, secondo vari esperti di diritto internazionale, ciò che sta accadendo a Gaza è classificabile come genocidio. Francesco chiede appunto di verificare fino in fondo se questa accusa è fondata. Il pontefice affronta questo, come diversi altri temi legati alle crisi internazionali, nel volume, pubblicato in occasione del Giubileo e di cui La Stampa ha diffuso alcune anticipazioni, dal titolo: La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore, a cura di Hernán Reyes Alcaide (Edizioni Piemme)
Francesco, dunque, con un intervento meditato, torna a parlare del conflitto in Medio Oriente a partire dalla situazione dei profughi, «dove le porte aperte di nazioni come la Giordania o il Libano continuano a essere la salvezza per milioni di persone in fuga dai conflitti della zona: penso soprattutto a chi lascia Gaza nel pieno della carestia che ha colpito i fratelli palestinesi a fronte della difficoltà di far arrivare cibo e aiuti nel loro territorio. A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».
L’intervento di Francesco, inevitabilmente, susciterà discussioni e critiche: l’ambasciata israeliana presso la Santa sede ha subito postato una dichiarazione su X: «Il 7 ottobre 2023 c’è stato un massacro genocida di cittadini israeliani e da allora Israele ha esercitato il proprio diritto di autodifesa contro i tentativi provenienti da sette diversi fronti di uccidere i suoi cittadini. Qualsiasi tentativo di chiamare questa autodifesa con qualsiasi altro nome significa isolare lo stato ebraico». Ma è un fatto che la guerra scatenata dal governo di Benjamin Netanyahu, dopo l’attacco subito il 7 ottobre del 2023, sta cambiando il giudizio su Israele nell’opinione pubblica mondiale e, in questo senso, anche quello della Santa sede.
Le decine di migliaia di morti civili, l’estensione del conflitto al Libano, senza contare le affermazioni violente e razziste da parte di alcuni esponenti del governo Netanyahu, e le aggressioni verso i palestinesi della Cisgiordania approfittando della guerra a Gaza, non potevano lasciare indifferente la chiesa, per altro presente nel teatro del conflitto con le sue comunità.
Il tema sollevato dal papa è da tempo una questione aperta e controversa nel dibattito internazionale.
La Corte penale internazionale ha chiesto, nel maggio scorso, l’incriminazione dei vertici di Hamas e di Israele, per «crimini di guerra e crimini contro l’umanità», commessi durante la guerra. Sempre l’anno scorso, il Sudafrica ha accusato Israele di “genocidio” di fronte alla Corte internazionale di giustizia.
Dialogo e incomprensioni
Certo, non si può sfuggire al fatto che fra la chiesa di Roma e il mondo ebraico, il dialogo e il confronto sono sempre stati delicati e oggetto allo stesso tempo di grandi slanci e grandi incomprensioni. Le ferite del passato, a cominciare dall’antisemitismo promosso anche dalla chiesa nell’arco di secoli, infatti, hanno avuto un peso enorme sulla sorte degli ebrei, nel vecchio continente in modo particolare. E tuttavia, 60 anni di dialogo interreligioso hanno, almeno in parte, fatto superare le incomprensioni e le tragedie del passato.
Ora, le parole scritte dal papa su Gaza segnano un mutamento di prospettiva: per Israele è finito, pure in Vaticano, il tempo di un trattamento speciale dovuto a una storia drammatica. D’altro canto, Netanyahu si è assunto la responsabilità di un conflitto violento e senza esclusione di colpi per garantire la sicurezza di Israele e, per avere mano libera con un simile politica, si è appoggiato alle forze più estreme e fondamentaliste presenti in Israele puntando in tal modo su una sorta di nazionalismo ebraico-israeliano costruito sulla paura suscitata dall’attacco altrettanto violento e terrificante messo in atto da Hamas il 7 ottobre del 2023.
Ma che qualcosa stia cambiando nello scenario dei rapporti internazionali a causa della guerra, lo si può intuire anche da un episodio avvenuto nei giorni scorsi; il 14 novembre scorso, infatti, una delegazione di sei ex ostaggi israeliani, ha incontrato il papa per chiedere un aiuto per ottenere la liberazione dei circa 100 ostaggi che rimangono ancora nelle mani di Hamas. «Il papa ci ha ascoltato e può aiutarci a far ritornare quelli che sono ancora a Gaza», hanno detto al termine del colloquio con Bergoglio i rappresentanti di quegli ostaggi che, evidentemente, non confidano fino in fondo nella saggezza dei loro governanti. Difficile dire quale sarà la reazione dei leader religiosi e politici del mondo ebraico, tanto in Israele, come nelle comunità della diaspora, all’intervento di Francesco su Gaza.
Oltre Nostra Aetate?
Sembra comunque che una prima fase del dialogo interreligioso ebraico-cattolico si sia conclusa, quella apertasi con la pubblicazione della dichiarazione conciliare Nostra Aetate (ottobre 1965), che cancellava l’accusa di deicidio che per secoli era stata rivolta dalla Chiesa agli ebrei e apriva la strada a una nuova stagione di intesa e collaborazione.
Ora, in un mutato contesto storico e mondiale, sarà necessario provare a individuare nuovi passi avanti per far si che il cammino comune non si inaridisca e trovi nuovi percorsi per andare avanti.
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