- Gli otto anni di Ratzinger non hanno certo rappresentato una rottura rispetto alla condotta fin lì perseguita sotto Wojtyla. Eppure qualcosa cambiò, soprattutto sul piano delle iniziative legate al dialogo interreligioso e con l’islam in particolare.
- Da buon professore qual è stato sapeva bene che la riflessione su ogni singola parola avrebbe dato forza a un documento, forse ancora di più rispetto alla forza che dava la presenza scenica di Giovanni Paolo II.
- Ratzinger era pur sempre un mite professore di teologia, che più che al papato agognava agli anni del ritiro in pensione per potersi finalmente dedicare in modo esclusivo allo studio e alla scrittura. Sarebbe però un errore bollare superficialmente Benedetto XVI come un pontefice avulso dalle dinamiche geopolitiche.
Il testo in queste pagine è tratto dal libro Il santo realismo. Il Vaticano come potenza politica internazionale da Giovanni Paolo II a Francesco, pubblicato da Luiss University Press
Non era giovane, Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, quando fu eletto papa con il nome di Benedetto XVI. Era il 19 aprile del 2005 e solo tre giorni prima aveva compiuto 78 anni. Da tempo pensava al meritato riposo per potersi dedicare agli amati libri e alla scrittura, o magari anche al pianoforte e alle passeggiate in compagnia del fratello Georg, anch’egli sacerdote.
Decano del Collegio cardinalizio, era stato fin dai primi anni Ottanta uno dei più stretti collaboratori di Karol Wojtyla, che non volle mai privarsi di lui: al momento dell’elezione era già in proroga di un biennio sull’età della pensione e il congedo, al papa polacco, l’aveva chiesto più volte.
La richiesta, però, era sempre stata rispedita cordialmente al mittente. Adesso, il professore di teologia tedesco si trovava davanti a un’impresa davvero complicata: lui, mite e riservato, riflessivo e parco nelle apparizioni pubbliche, doveva raccogliere l’eredità del più mediatico dei papi, quel Giovanni Paolo II che aveva guidato la chiesa per più di ventisei anni e al cui funerale la folla chiedeva la canonizzazione immediata al grido di “Santo subito”.
Di sicuro vi sarebbe stata grande continuità dogmatica, e non poteva essere altrimenti. Ma su altri temi e dossier, come si sarebbe comportato Benedetto XVI? Di certo veniva ridimensionato il ruolo per così dire “pubblico” del papa o quantomeno il suo ruolo mediatico.
Il problema stava nel comprendere se ciò avrebbe comportato anche un ripiegamento diplomatico e più in generale un allentamento della presa sulle vicende globali che invece avevano visto assai coinvolto il pontificato giovanpaolino.
Una profezia smentita
A diversi anni dalla conclusione di quel pontificato qualche bilancio può essere tratto, inquadrandolo tra il regno di due papi – ciascuno a modo suo, e mai come in questo caso i modi sono diversi e molto lontani tra loro – “rivoluzionari”.
Gli otto anni di Ratzinger non hanno certo rappresentato una rottura, uno sconvolgimento rispetto alla condotta fin lì perseguita sotto Wojtyla. Non era né preventivabile né logico pensarlo, dopotutto. Eppure qualcosa cambiò, soprattutto – nell’ottica delle relazioni internazionali che sono l’oggetto d’interesse specifico di questo volume – sul piano delle iniziative legate al dialogo interreligioso e con l’islam in particolare.
Uno dei primi atti del nuovo pontefice, che la stampa dell’epoca definì non a torto “clamoroso”, fu quello di trasferire al Cairo, come nunzio, il curiale monsignor Michael Fitzgerald, all’epoca presidente proprio del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
La carica ricoperta da Fitzgerald, considerata per lui l’anticamera della creazione a cardinale, era infatti stata svolta con una certa disinvoltura dall’arcivescovo inglese, che aveva ad esempio proposto – nel corso di una conferenza tenuta nella località portoghese nel novembre del 2003 – di trasformare il santuario mariano di Fatima in un centro spirituale interconfessionale, aperto a tutte le fedi.
Adesso, trasferito in una nunziatura importante per il dialogo con il mondo musulmano e tuttavia periferica, non avrebbe più rappresentato un ingombro per Benedetto e la sua visione. Fitzgerald la porpora l’avrebbe ottenuta solo nel 2019, quando papa Francesco gliela concesse in quota “ultraottantenni”, vale a dire cardinale senza diritto di voto.
Una visione trascendente
A ogni modo, il suo allontanamento era un primo e palese indizio che Ratzinger, sul tema, aveva idee chiarissime e non sempre in continuità con il predecessore. Un cambio di passo fu subito evidente: dopo i quasi tre decenni di battaglie contro i regimi comunisti e quei settori ecclesiastici sospettati di ammiccare a derive marxiste, si trattava di rallentare, di far decantare tante situazioni che, complice la malattia di Giovanni Paolo II, si erano imbrigliate e necessitavano di chiarezza.
Gli osservatori di questioni ecclesiastiche erano convinti che ciò sarebbe accaduto, considerato appunto il carattere mite e riflessivo di Ratzinger, poco incline a grandi mosse mediatiche. Una profezia in parte confermata ma in parte anche smentita. Perché se è vero che Benedetto mai si concesse a moniti solenni in mezzo alla folla o a prese di posizione di forte impatto davanti alle telecamere di mezzo mondo, d’altra parte egli agì con la forza della parola scritta e con i profondissimi discorsi riservati a pubblici selezionati.
È qui che sarebbe risultata tutta la forza del pensiero di Joseph Ratzinger, che da buon professore qual è stato sapeva bene che la riflessione su ogni singola parola avrebbe dato forza a un documento, forse ancora di più rispetto alla forza che dava la presenza scenica di Giovanni Paolo II.
«La diplomazia è, in un certo modo, l’arte della speranza. Essa vive della speranza e cerca di discernere persino i segni più tenui. La celebrazione del Natale viene ogni anno a ricordarci che quando Dio si è fatto piccolo bambino, la speranza è venuta ad abitare nel mondo, al cuore della famiglia umana».
In queste parole di Benedetto XVI, chiosa del solenne discorso al corpo diplomatico, è racchiuso il suo modo di intendere la diplomazia e – più in generale – la politica internazionale. Una visione ancorata fortemente all’elemento trascendente, poco propensa a cedere a pulsioni realiste e alla normale cautela. Il che ha creato parecchi problemi durante il suo pontificato, causando anche qualche incidente non trascurabile.
La lezione di Ratisbona
Il riferimento d’obbligo e scontato è a quanto accadde dopo la lectio magistralis tenuta all’università di Ratisbona nel 2006, quando un passaggio sull’islam, come vedremo più avanti, scatenò la furia in diversi paesi a maggioranza musulmana. La tensione era altissima, tant’è che da più parti – nell’immediatezza dell’evento – si chiedeva che il papa compisse una sorta di gesto riparatore, spiegando e chiarendo. Si accavallarono petizioni e appelli, minacce e condanne.
Il mite professore divenuto pontefice solo poco più di un anno prima finiva già nel mirino e con lui la curia, con la segreteria di Stato in fase di transizione, visto che di lì a poco sarebbe finito il lungo “regno” di Angelo Sodano, in carica dal 1991, e al suo posto sarebbe arrivato Tarcisio Bertone.
Anche in questa scelta, particolarissima, si rivelerà il modo peculiare di Ratzinger di vedere il ruolo della Santa sede – ma sarebbe meglio dire il ruolo della chiesa – nel mondo e nei suoi rapporti internazionali. In quella posizione, estremamente delicata, era sempre stato nominato un diplomatico di carriera, formatosi alla gloriosa scuola vaticana. Benedetto XVI cambia schema: sceglie Bertone, allora arcivescovo di Genova, che era stato il segretario della Congregazione per la dottrina della fede negli anni Novanta.
Un perfetto organizzatore un po’ “capoufficio” che il papa ebbe modo di apprezzare e conoscere e che volle con sé a tutti i costi, benché non fossero poche le voci in curia – anche tra i suoi più fidati amici – che gli sconsigliavano di mettere sotto un cono d’ombra la diplomazia pontificia. Ratzinger andò invece dritto per la sua strada e difese Bertone fino all’ultimo, nonostante le critiche al suo operato si facessero sempre più frequenti e intense durante gli anni del pontificato.
È rimasta famosa è l’udienza concessa all’amico Joachim Meisner, allora cardinale arcivescovo di Colonia, il quale lo scongiurò di sostituire il segretario di Stato, con il papa che risolutamente gli disse di no. Più tardi, sarà il suo biografo Peter Seewald a domandargli perché non avesse deciso un cambio di guida alla segreteria di Stato, considerati gli incidenti, le gaffe e gli scandali che avevano contraddistinto il pontificato.
«Perché non ne avevo alcun motivo», fu la risposta di Benedetto XVI, già emerito. «Bertone non era un diplomatico, è vero, ma era un pastore d’anime, vescovo e teologo, professore, canonista. In questa veste, aveva anche insegnato diritto internazionale e conosceva benissimo gli aspetti giuridici del servizio. Fin da principio si delineò da più parti un forte pregiudizio nei suoi confronti (…). D’accordo, ha commesso forse qualche errore, per aver viaggiato troppo, parlato e via dicendo (…). È stato spesso al centro delle critiche e credo che molte di quelle rivolte a lui toccassero in realtà a me. Ci fidavamo l’uno dell’altro, ci capivamo, perciò stavo dalla sua parte».
Il mite professore
Il cardinal Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, disse che Ratzinger «non priverebbe mai della sua fiducia le persone che hanno riposto la stessa in lui».
A ogni modo, il problema della governance era palese e se è vero che a finire nel mirino fu Bertone, diversi osservatori si domandarono se non fosse in atto una sorta di guerra della “vecchia guardia” diplomatica contro il nuovo corso che quella diplomazia aveva messo in ombra, e avrebbe continuato a farlo fino all’elezione di Francesco, che chiamerà in segreteria di Stato un diplomatico di razza come Pietro Parolin.
Se Giovanni Paolo II alternò per tutto il pontificato il realismo a un idealismo che non è errato né esagerato definire “wilsoniano”, diversa sarebbe stata la strada perseguita dal successore. Che già per indole era diverso: se il papa polacco impersonava in tutto e per tutto il leader, il “condottiero” che si sarebbe rivelato capace di abbattere muri e cortine, Ratzinger era pur sempre un mite professore di teologia, che più che al papato agognava agli anni del ritiro in pensione per potersi finalmente dedicare in modo esclusivo allo studio e alla scrittura.
Sarebbe però un errore bollare superficialmente Benedetto XVI come un pontefice avulso dalle dinamiche geopolitiche, poco competente dei dossier di politica internazionale. Ratzinger, al contrario, è stato un uomo di curia per più di un ventennio prima di essere eletto al soglio petrino, ha accompagnato Wojtyla in non pochi atti e gesti, simbolici e non, che avevano a che fare con il ruolo della chiesa nel mondo.
In qualche caso anche non nascondendo la propria perplessità, come in occasione degli incontri interreligiosi di Assisi, nel 1986. Joseph Ratzinger fu infatti tra i critici del grande evento di preghiera comune voluto dal Papa polacco, avendo già in tempi non sospetti denunciato «un’enfasi eccessiva sui valori delle religioni non cristiane».
In riferimento all’incontro ecumenico e interreligioso, Ratzinger chiarì tempo dopo di non avere «discusso con il papa sull’idea di Assisi, perché io sapevo che lui voleva la cosa giusta, e lui sapeva che io avevo una linea leggermente diversa. In seguito, prima del secondo incontro di Assisi, mi disse che gli avrebbe fatto piacere se fossi andato anch’io. In quel momento le obiezioni che avevo sollevato erano state già recepite e si era trovata una formula dell’evento che consentiva la mia partecipazione».
L’incidente col mondo islamico
Si è fatto cenno a Ratisbona, e di come quella lezione fosse stata subito letta come un j’accuse all’islam in quanto tale e non solo alla sua deriva fondamentalista, quasi che il papa fosse una versione contemporanea del crociato Pio V. Il discorso di Ratzinger era in realtà ben più ampio e al centro della riflessione del pontefice c’erano la chiesa e l’occidente, naturalmente con il riflesso dei rapporti con la complessa realtà islamica.
Un passaggio in particolare scatenò la reazione, anche violenta, contro il Pontefice: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava», disse Ratzinger citando l’imperatore bizantino Manuele II Il Paleologo.
La citazione sollevò aspre critiche, tant’è che al discorso ufficiale fu necessario apporre una nota di chiarimento: «Questa citazione, nel mondo musulmano, è stata presa purtroppo come espressione della mia posizione personale, suscitando così una comprensibile indignazione. Spero che il lettore del mio testo possa capire immediatamente che questa frase non esprime la mia valutazione personale di fronte al Corano, verso il quale ho il rispetto che è dovuto al libro sacro di una grande religione. Citando il testo dell’imperatore Manuele II intendevo unicamente evidenziare il rapporto essenziale tra fede e ragione. In questo punto sono d’accordo con Manuele II, senza però far mia la sua polemica».
Non bastò. La Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, sostenne che il discorso era stato «l’ultimo anello di un complotto per una crociata», dall’Akp turco – il partito di governo di Recep Tayyip Erdogan – si arrivò a paragonare Benedetto XVI a Hitler e Mussolini.
L’allora presidente dell’Ufficio per gli affari religiosi di Ankara, Ali Bardakoglu, definì l’intervento papale di Ratisbona «provocatorio, ostile, pregiudiziale». Ma quel che è peggio è che le masse, adeguatamente aizzate, si precipitarono in strada: chiese date alle fiamme (in un solo giorno furono colpite quattro chiese a Nablus, in Cisgiordania), rivolte ovunque (dalla Turchia a Gaza) e minacciosi slogan anticristiani ripetuti nelle piazze.
Come nota ancora Peter Seewald, la stampa tedesca diede manforte a quanti criticavano il pontefice. «Il pensatore intelligente si è comportato da ingenuo, per non dire da incosciente», scrisse la Süddeutsche Zeitung, mentre Der Spiegel sentenziava che Benedetto XVI aveva «quasi innescato una crisi globale». Il Vaticano fu colto alla sprovvista, benché il testo della lezione fosse disponibile già da tempo e nessuno – come ammise lo stesso pontefice – avesse “detto nulla al riguardo”.
Il chiarimento
Il 14 settembre, due giorni dopo il discorso, la Santa sede diramò un comunicato in cui letteralmente spiegava il testo, sottolineando che dal papa era giunto «un chiaro e radicale rifiuto della motivazione religiosa della violenza». Di più, visto che «non era certo nelle intenzioni del santo padre svolgere uno studio approfondito sulla jihad e sul pensiero musulmano in merito, e tanto meno offendere la sensibilità dei credenti musulmani». Chiosava padre Federico Lombardi, allora direttore della sala stampa vaticana: «È chiara quindi la volontà del santo padre di coltivare un atteggiamento di rispetto e di dialogo verso le altre religioni e culture, evidentemente anche verso l’islam».
Il nuovo segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il 16 settembre, parlava del rammarico del Papa «per il fatto che alcune sezioni del suo discorso possano aver ferito i sentimenti dei credenti musulmani e siano state interpretate in un modo che non è affatto quello che intendeva». Il giorno dopo, in occasione dell’Angelus, Benedetto XVI intervenne direttamente sull’argomento: «Si trattava di una citazione di un testo medievale, che non esprime in nessun modo il mio pensiero personale».
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