A Gaza Israele esercita un sacrosanto diritto di difesa oppure massacra vilmente indifesi? La strage di israeliani inermi è stata l’inevitabile prodotto di una lotta anti-coloniale oppure contiene un quid che eccede perfino l’infame nome di “terrorismo”? Hanno una qualche giustificazione quei grandi media internazionali come la Bbc che si rifiutano di chiamare “terroristi” gli sterminatori palestinesi oppure la loro è una ambiguità pericolosa?

Come sempre quando la storia arriva ad un crinale, nel mare nero del nostro disorientamento si combatte accanitamente per il controllo delle parole-faro, quelle che dovranno guidarci tra i marosi. L’ultima volta che si accese una tale mischia fu all’indomani dell’11 settembre. All’epoca prevalse facilmente la poderosa flotta neocon, e ci ritrovammo in Iraq quasi senza sapere perché.

Oggi la guerra delle parole è più incerta. Ma resta identica l’intimazione che gli uni e gli altri ci puntano addosso: o con noi o contro di noi. Chi si allontana lungo rotte non contemplate dalle tribù finisce sotto un fuoco incrociato, talvolta risulta contemporaneamente servo della Nato; quinta colonna dei palestinesi; guerrafondaio; antisemita; complice dell’odioso Zelensky; sodale degli islamici; canaglia che se ne infischia dei palestinesi; canaglia che se ne infischia degli israeliani.

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Nella bufera anche le parole fino a ieri dirimenti sbattono come vele strappate. Cosa è oggi “occidente”? O perlomeno, cosa non è? Cinque anni fa l’amministrazione Trump ripropose la vecchia geopolitica. Due potenze egemoni (Usa e Cina) e intorno due Blocchi.

Biden scartò quel remake ma conservò lo schema bipolare: di qua il consesso delle democrazie, guidato dagli Stati Uniti; di là le autarchie, i barbari. Ma ingabbiare in quella formula l’odierna anarchia internazionale risultò presto un esercizio contraddittorio. Se l’occidente è il club delle democrazie come spiegare, per esempio, la corte serrata degli occidentali a Narendra Modi, il gran capo dell’etno-nazionalismo indù che sta smantellando lo stato di diritto liberale in India? Nel settembre scorso, annunciò il New York Times, Biden aveva abbandonato la dizione “democrazie versus autarchie”.

Che tuttavia torna a risuonare nella formula “democrazie sotto attacco” con la quale il presidente americano ha abbinato l’invasione dell’Ucraina e il massacro compiuto da Hamas-Jihad. Ma anche questo pare un approdo di fortuna. Lo contestano dignitari dell’Unione europea: l’assedio di Israele alla popolazione di Gaza, nota Josep Borrell, è una reazione non coerente con il profilo di una democrazia liberale. Semmai è nello stile di Putin, aggiungono altri.

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Se da questa confusione esce una cosa chiara è che l’Occidente attraversa una crisi esistenziale. Non riesce a scegliere un criterio rigoroso con cui definire la propria identità. Ad attribuirsi una motivazione storica e a spiegarla con una verità incontrovertibile. In questi casi la scorciatoia sarebbe decidere almeno cosa non siamo, precisare il profilo dell’Anti-Occidente sul quale modelliamo per contrasto il nostro Sé.

L’opposto di “occidente” è Putin, certo. Hamas, certo. Però i Netanyahu, i Modi, sono tra i nostri? Mah. A restare una baraonda di linguaggi si rischia la fine della Babele biblica, “confondiamo la loro lingua affinché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro" (Genesi, 11) e si perdano. Come “occidente”, anche “terrorista” è parola sotto sforzo.

Nella seconda parte del Novecento gli occidentali si abituarono a condonare le uccisioni di innocenti per mano di movimenti di liberazione. Le consideravano danni collaterali inevitabili nella giusta lotta contro i regimi coloniali. Ma se questo ragionamento può trovare alibi in giustificati complessi di colpa, non ne ha alcuno il seguito.

Per ragioni ideologiche intrecciate a interessi concreti, fossero contratti petroliferi o le urgenze della Guerra fredda, gli occidentali preferirono ignorare i crimini commessi dai vincitori dopo l’indipendenza, dallo sterminio dei “collaborazionisti” e delle loro famiglie, all’aggressione contro minoranze ritenute infide, fino ad un razzismo che prese di mira gli ebrei e ne determinò l’espulsione senza che gli occidentali eccepissero.

Tolleranza dell’orrore

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Questo seguito insanguinato non era affatto nel destino dei movimenti anticoloniali (se ne tennero lontani, tra gli altri, il Sudafrica di Mandela e l’Fln tunisino). Eppure in occidente si radicò una tendenza ad assolvere perfino azioni infami, mai giudicandole per quello che rivelavano degli autori.

Ne rimane traccia nell’atteggiamento di chi, di fronte al massacro di Kfar Aza, ha tentato di assolvere e assolversi brandendo lo slogan tribale “Io sto con i Palestinesi”: dove per Palestinesi sembra intendersi un tutto “anti imperialista” inclusivo di Hamas (non è meno ambiguo il tribalismo opposto, “io sto con Israele”: quale Israele?). Quel che è avvenuto durante il raid di Hamas e Jihad rivela una malvagità che non può essere spiegata solo come l’ira prodotta dai misfatti israeliani.

È un quid che eccede la classificazione “terrorismo” e meriterebbe una configurazione propria tra i crimini contro l’umanità. Il grosso della società palestinese non cova tanta perfidia: ma ha la colpa di tollerarla. Tempo fa una vecchiaccia interpellata a caso da una tv del West Bank soffiò nel microfono: «Bisognerebbe fare come a Hebron». Si riferiva al massacro di 69 residenti ebrei nel 1929. Il giovane intervistatore era in evidente disagio. Ma restò muto, come attenendosi ad un interdetto accettato dalla società palestinese.

La tua logica, avrebbe dovuto obiettare, non è diversa da quella di Baruch Goldstein, il “colono” israeliano che nel 1994 entrò in una moschea di Hebron e massacrò 29 palestinesi prima di essere a sua volta ammazzato. Nel 2019 si scoprì che un ritratto fotografico dell’assassino era esposto nel salotto di un leader dell’estrema destra israeliana, Ben Gvir, oggi ministro per la Sicurezza nazionale e veemente accusatore degli sterminatori palestinesi.

Le simpatie del ministro Ben Gvir aiutano a capire perché oggi la Bbc e altri grandi media evitino il termine ‘terroristi’ nei notiziari. Anche il diritto internazionale tratta la parola con circospezione. Nello Statuto di Roma, il codice di riferimento della Corte penale internazionale, non compare un reato di terrorismo, e i tentativi di inserirlo finora si sono smarriti in un ginepraio giuridico e semantico. Uno degli argomenti più spinosi è se l’accusa di terrorismo sia contestabile anche agli stati.

Nel maggio 2022, durante una protesta palestinese nel West Bank, una pallottola isolata uccise Shireen Abu Akleh, giornalista di al Jazeera, tv detestata dalla destra israeliana. Dopo indagini serrate l’Agenzia Onu per i diritti umani e il New York Times conclusero che a sparare era stato un soldato. Un tiratore delle unità speciali, ipotizzò l’ong di ex militari israeliani B’tselem. Se fosse così potremmo parlare di “terrorismo di stato” oppure in quel conflitto i terroristi sono solo palestinesi?

Reggimento palestinese

Per dotarci di un dizionario meno confuso sarebbe indispensabile l’aiuto di un giudice informato e neutrale, quale oggi può essere solo la Corte penale internazionale (in sigla Icc). Se non ci si può illudere che la storia sia riducibile alle dimensioni di un’aula di giustizia, tuttavia gli investigatori dell’Icc sono sul campo e potrebbero illuminarci.

È legittima difesa o crimine di guerra quel che Israele sta facendo a Gaza? E soprattutto: vige nel West Bank un Apartheid? Lo sostengono autorevoli ong e il canadese Michael Lynk, Special Rapporteur delle Nazioni Unite. In Italia il tema è stato semplicemente omesso dalla politica e dai media (con rare ma qualificate eccezioni, per esempio Nadia Urbinati e, sul Mulino, Anna Momigliano). Se ne comincia a parlare adesso, in relazione alla guerra di Gaza.

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Alcuni liquidano come stupidaggine l’idea di un Apartheid israeliano in quanto non vi sarebbe alcuna similitudine con l’Apartheid sudafricano (la ministra degli Esteri sudafricana Naledi Pandor sostiene l’opposto, e in ogni caso dal 2002 Apartheid è un crimine codificato dallo Statuto di Roma). Altri ne ricavano un pretesto per assolvere le gesta dell’”anti-coloniale” Hamas. Altri ancora ritengono che chi accusa il governo israeliano dà prova di antisemitismo (e se è un ebreo, è “un ebreo che si auto-depreca”).

Non va meglio quando si cerca nella storia il senso complessivo degli accadimenti. Circolano sui giornali varie narrazioni del passato, di solito difformi nel pesare le colpe ma tutte convergenti in un’omissione: nessuna traccia dei non pochi momenti di collaborazione tra israeliani e palestinesi.

Torna in mente la pantomima che andò in scena per anni nei cortei del 25 aprile, quando filo-israeliani e filo-palestinesi si scambiavano sguardi torvi e la medesima accusa, “Fascisti!”. Eppure avrebbero potuto onorare, insieme, il Palestine regiment. Formato nel 1942 dall’esercito britannico con volontari che risiedevano in Palestina, sia arabi sia ebrei, il reggimento aveva funzioni ausiliarie.

Ma prima che i volontari ebrei confluissero nella Jewish brigade (sul finire del 1944) si trovò a conbattere in furiose battaglie in Libia. I volontari arabi della Palestina che parteciparono alla Seconda guerra mondiale, in quello e in altri reggimenti, furono 12mila, per gran parte contadini richiamati dalla paga, ma anche cittadini mossi dall’ostilità al fascismo, di cui era nota nel mondo arabo la ferocia mostrata in Cirenaica.

In seguito quella vicenda fu rimossa da Israele e dalle organizzazioni palestinesi, in quanto incongrua con le rispettive narrazioni nazionali. Eppure l’invisibile Palestine regiment continua a marciare in Israele, nei Territori occupati, ovunque ebrei e arabi collaborino, nella comune convinzione che a decidere ostilità e amicizie debbano essere le idee e i comportamenti conseguenti, non la ferraglia insanguinata che inchiavarda tra loro le parole Religione, Etnia, Nazione, Identità.

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