- Conquistare Kabul non è come conquistare Kandahar venticinque anni fa. Allora nelle scuole coraniche del Pakistan si vedevano ragazzini, più vocianti e irrequieti che soggiogati dalle preghiere, destinati a trasformarsi anche loro in combattenti devoti.
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Il palazzo reale di Kabul, protetto molti decenni fa solo da un basso muro bianco, nel 1973 aveva visto uscire Zaher Shah, l’ultimo re dell’Afghanistan. Nei giorni scorsi lo stesso palazzo ha visto entrare i Talebani.
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L’armata folkloristica afghana che ha conquistato Kabul è cambiata, sempre abbarbicata a un’arma, non porta divise, nasconde il viso dietro sciarpe e turbanti, indossa ciabatte e sandali, ma cede progressivamente al fascino delle scarpe sportive multicolori. Il progetto politico invece è sempre lo stesso: riportare la sharia in Afghanistan.
Conquistare Kabul non è come conquistare Kandahar venticinque anni fa. Allora nelle scuole coraniche del Pakistan si vedevano ragazzini, più vocianti e irrequieti che soggiogati dalle preghiere, destinati a trasformarsi anche loro in combattenti devoti. Oggi i Talebani non sono più soli a controllare il territorio afghano, tutto il mondo ha visto lo scempio degli attentati all’aeroporto. E comunque questi nuovi padroni del paese non sono un prodotto esclusivo del mondo islamico. Appartengono a una dimensione più ampia del potere che Karl August Wittfogel a metà del secolo scorso riassumeva nelle pagine de Il dispotismo orientale.
Oggi in Asia quella concezione rigida è utilizzata in Corea del nord dalla dinastia Kim, in Cina da un partito comunista ispirato al culto della personalità, in Birmania dalla eterna falange dei generali, in Iran dai mullah oltranzisti, in Siria dalla famiglia Assad. Ma quel potere ha avuto il suo modello più cupo e sanguinario nella Cambogia dei khmer rossi, durata solo quattro anni dopo la cattura di Phnom Penh nel 1975, che ancora sparge schegge del suo contagio.
L’ultimo re
Il palazzo reale di Kabul, protetto molti decenni fa solo da un basso muro bianco che un qualsiasi suddito poteva scavalcare senza fatica, nel 1973 aveva visto uscire Zaher Shah, l’ultimo re dell’Afghanistan. Deposto per la congiura di palazzo del principe Daud. Primo, sciagurato capitolo della disgregazione afghana.
Nei giorni scorsi lo stesso palazzo ha visto entrare i Talebani. Prima avevano dovuto oltrepassare le poderose barriere costruite in questi anni dai soldati stranieri per isolare quella zona della città, secondo lo schema coloniale degli inglesi in India. Tra tappeti, divani, quadri e stucchi gli eredi del mullah Omar mostravano lo stesso spaesamento dei seguaci scalmanati di Donald Trump quando sono entrati brutalmente nel Campidoglio a Washington.
Ma prima ancora avevano avuto lo stesso atteggiamento in Cambogia i khmer rossi, quando usciti dalla giungla e messi in fuga gli americani, erano arrivati davanti al palazzo di Norodom Sihanouk, prima re, poi decaduto a principe, quindi capo della opposizione in esilio, per ritornare re nel 1993. Entrambi, Zaher Shah e Sihanouk, hanno avuto una parabola simile, e rara, hanno lasciato il potere e decenni dopo hanno ritrovato lo stesso palazzo dove finire i loro giorni.
La conversione
L’armata folkloristica afghana che ha conquistato Kabul è sempre abbarbicata a un’arma, non porta divise, nasconde volentieri il viso dietro sciarpe e turbanti anche quando non deve difendersi dalla sabbia sollevata dal vento, indossa ancora ciabatte e sandali, ma cede progressivamente al fascino delle scarpe sportive multicolori. Recupera anche sottili verghe di legno e tubi di gomma usati tradizionalmente per domare la folla irrequieta, anticipazione delle frustate vere richieste dalla legge islamica.
Questi combattenti che impiccavano i nastri delle cassette musicali ai fili della luce oggi si esibiscono con abbondanza di cellulari. Ma non è una conversione recente. Almeno da dieci anni, prima dei loro attacchi, ordinavano alle compagnie telefoniche di disattivare i trasmettitori per non essere ascoltati. In caso contrario i tralicci saltavano. Il progetto politico invece è sempre lo stesso: riportare la sharia in Afghanistan.
Il viaggio
A Stoccolma vive Peter Froberg Idling che ha scritto Il sorriso di Pol Pot, forse la migliore radiografia dell’esperimento rivoluzionario khmer. Ha vissuto a lungo in Cambogia, ha rincorso testimoni introvabili di quella stagione, la sua grafia sembra aver assorbito i caratteri della scrittura khmer. Proprio in quegli anni una piccola delegazione di simpatizzanti svedesi, tra i rarissimi stranieri accolti da Pol Pot, raccontò poi al suo ritorno con parole quasi idilliache un viaggio durato due settimane e lungo mille chilometri. Credendo più alle proprie ideologie che alle cose viste e sentite direttamente.
Il capo del gruppo in particolare, Jan Myrdal, figlio dei due celebri premi Nobel Gunnar e Alva, scriverà che non aveva visto le «cose orribili» che raccontavano i profughi, di avere incontrato invece persone sorridenti, ben nutrite, e annotato trasformazioni del paese a ritmo serrato. Concludendo che «abbiamo molto da imparare» da questo nuovo potere. In seguito non ha rinnegato alcuna di queste dichiarazioni.
I seguaci di Pol Pot arrivavano dopo il crollo di un regime sostenuto dai soldati americani, come oggi è successo ancora più velocemente a Kabul. Si installarono subito con una menzogna. Per svuotare la capitale dissero agli abitanti che gli americani sconfitti sarebbero tornati con i bombardieri, che bisognava scappare subito per salvarsi e non portare via nulla, che dopo tre giorni tutti sarebbero rientrati a recuperare le loro cose. Fu invece una fuga senza ritorno, per costruire la società contadina senza classi, con poco cibo, con abiti neri per tutti, con una vita familiare praticamente sgretolata, senza più monaci buddisti per le strade, senza più soldi da scambiare, con scuole e ospedali praticamente abbandonati, senza auto, senza più collegamenti con il mondo esterno, e con il sostegno diplomatico esclusivo della Cina.
Una pronta menzogna
Anche i Talebani hanno pronta la loro menzogna, quando dicono che le restrizioni già imposte alle donne servono a proteggerle. Loro contano da anni sul sostegno del Pakistan, hanno metodi sbrigativi come il taglio delle mani e la lapidazione, e hanno una ossessione per il mondo femminile, che vogliono oscurare sotto il burqa, limitando l’istruzione e il diritto di muoversi da sole.
Erano cupi e intransigenti i khmer rossi con i lavori collettivi, le mense comuni, il divieto di allontanarsi dal luogo di lavoro, le uccisioni notturne legando le mani dietro la schiena con cavi elettrici e con colpi di bastone senza sprecare munizioni. Sono stati cupi e intransigenti i Talebani con il divieto di far volare gli aquiloni, con la misurazione della barba, l’obbligo degli abiti tradizionali, il sabotaggio delle canzoni e altre angherie quotidiane fino alle punizioni pubbliche e violente negli stadi. I libri sono stati nascosti sotto terra in entrambi i paesi.
Dice un vecchio proverbio khmer che «con l’acqua si fa il riso, con il riso si fa la guerra». Questa formula rudimentale delle società idrauliche poteva bastare ai capi della Cambogia rivoluzionaria per costruire dighe e canali, per arrivare a tre raccolti di riso all’anno. Il sistema anonimo e opaco del potere, racchiuso nell’Angkar-Organizzazione, era semplice e brutale, nonostante i tre massimi responsabili Pol Pot, Khieu Samphan e Ieng Sary avessero studiato alla Sorbona e così le loro compagne.
Nei dodici comandamenti da recitare ogni mattina c’erano direttive surreali: chiederai scusa al popolo ogni volta che commetterai un errore o gli mancherai di rispetto, seguirai gli usi del popolo quando parli, dormi, cammini, stai in piedi o seduto, quando ti diverti o ridi, dovrai ininterrottamente ribollire di odio nei riguardi degli imperialisti americani e dei loro lacchè.
Queste ultime parole anticipano quasi di mezzo secolo il sentimento che ha spinto in fuga verso l’aeroporto di Kabul gli afghani che avevano collaborato con le truppe occidentali, che avevano rinunciato a «ribollire di odio» verso gli stranieri, che ormai non hanno più aerei salvatori. Anticipano anche l’odio ancora più irriducibile degli attentatori di questi giorni contro i civili.
Si ripete, con un facile slogan, che l’esercito afghano si è dileguato prima che i Talebani entrassero a Kabul, dimenticando le consuetudini bellicose dei maschi di quel paese che hanno sconfitto da sempre tutti gli stranieri in armi.
L’esercito dileguato
Dimenticando che molti soldati erano stati lasciati senza munizioni, senza paga da mesi, e che comunque le truppe indicate nei documenti ufficiali erano in buona parte truppe fantasma, utili solo a gonfiare i bilanci e a ottenere soldi distribuiti poi tra i comandanti. Questo è un imbroglio che andava avanti da anni, che l’ex presidente Karzai oggi dialogante con i Talebani conosceva benissimo quando occupava il palazzo reale. E la stessa cosa era avvenuta in Cambogia prima che arrivassero i khmer rossi. Allora gli aiuti militari americani erano proporzionati al numero dei cambogiani arruolati. Già due anni prima della caduta di Phnom Penh su dieci soldati almeno due e spesso quattro esistevano solo sulla carta.
Ai vertici dei Talebani non ci sono laureati nelle università occidentali. In questi giorni il palazzo di Darulaman, che doveva essere la copia più modesta di Versailles, ideato un secolo fa, distrutto, restaurato, è praticamente vuoto. Lì si è riunito un gruppo di Talebani. Si sono accorti che non riuscivano a comunicare, nessuno conosceva il dari, una delle due lingue ufficiali del paese. Hanno mandato qualcuno in moto a cercare un improvvisato traduttore. Intanto gli hazara, l’etnia sciita invisa agli studenti islamici sunniti, installata attorno a Bamyan dove furono distrutti i famosi Buddha, è già stata allertata: dovrà pagare le tasse sul terreno, gli animali, l’acqua e gli alberi. Questi ultimi hanno un particolare valore simbolico, un amico è la persona «con la quale si divide l’ombra».
La religione
I khmer avevano la loro regola ipocrita sulle religioni. A ogni cittadino era garantito il diritto di esercitare la propria fede e ugualmente di non aderire a nessuna. Però tutte le religioni reazionarie contrarie al paese e al popolo erano severamente proibite. Alla fine un divieto totale.
Già nel 1996 gli studenti islamici, quando avevano fissato la capitale a Kandahar, l’avevano collegata direttamente alla rete telefonica di Islamabad, come il capoluogo di una nuova provincia pakistana. Sul confine incontrai il finanziere dei Talebani, Haji Amanullah Achakzai. Era una delle quattro persone che potevano raggiungere direttamente il mullah Omar. La sua casa si notava a venti chilometri di distanza, con alte mura, novanta stanze e ottantatré bagni. Lì era concentrato un clan di centosessanta persone. Sulla sua auto uno schermo piatto indicava la strada e mostrava programmi tv di mezzo mondo. Sul biglietto da visita i suoi uffici passavano da Dubai per arrivare fino a Nagoya in Giappone, dove andava regolarmente. Dava il 30 per cento all’Emirato con la bandiera bianca e le scritte in nero.
Adesso i Talebani dovranno organizzare l’economia davanti all’embargo occidentale. Le risorse immediate sono l’eroina, le pietre preziose, le materie prime rare e anche un consistente traffico di armi. Nel 2001 erano diventati virtuosi davanti alle proposte Onu di abbandonare l’oppio. I I khmer rossi, dopo aver perso il potere, si erano installati nella giungla sul confine con la Thailandia. Da lì vendevano le pietre preziose scavate a Pailin e i reperti archeologici dei templi di Angkor. Mezzi guerriglieri, mezzi contrabbandieri, entrambi rami dello stesso albero.
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