- In America Latina la chiesa di Bergoglio, improntata sul dialogo e aperta ai poveri, ha prodotto frutti scarsi, con le chiese particolari sempre più atrofizzate e incartate negli apparati burocratici del Celam e del Sedac.
- Arrestata la spinta della Teologia della Liberazione, neppure la vocazione unitaria al popolo latinoamericano di Bergoglio arcivescovo ha prodotto il fermento ancora tangibile negli anni della Conferenza di Aparecida.
- Resta un grande punto di domanda: perché il papa non va in Argentina? Smarcandosi da chi lo definisce peronista, il pontefice è una personalità politica divisiva, come dimostrano i suoi interventi a gamba tesa nelle questioni nazionali.
Cosa resta della chiesa in America Latina a dieci anni dall’elezione del primo papa latino è poco chiaro. Se «la realtà è superiore all’idea», finora non sono stati sufficienti gli incontri di papa Francesco con la classe dirigente latinoamericana né i frequenti tentativi di dialogo per interposta persona.
Da Roma, dove negli anni di Giovanni Paolo II si è consumato il braccio di ferro con la teologia della Liberazione, dichiarata poi un’esperienza formalmente chiusa durante la Conferenza generale dell'episcopato latinoamericano di Santo Domingo (1992), Francesco incarna il paradosso del primo papa terzomondista spettatore di una chiesa strozzata, incapace di svicolarsi dal nodo scorsoio della crisi sociale e dei regimi autoritari.
Vi lascio la pace
In America Latina la chiesa di Bergoglio, improntata sul dialogo e aperta ai poveri, ha prodotto frutti scarsi, con le chiese particolari sempre più atrofizzate e riunite in meri apparati burocratici. Il ruolo attivo dei cattolici nelle mediazioni di pace degli anni passati è, anzi, diventato un’aggravante.
È la chiesa che ha il volto di mons. Rolando Alvarez, il vescovo che ha rifiutato l’esilio dal Nicaragua – caldeggiato peraltro dalla Santa sede - optando per il carcere La Mondelo a Managua, dove il presidente Daniel Ortega sta confinando tutti i religiosi colpevoli – a detta sua - di aver fomentato la rivolta popolare del 2018.
Stessa sorte all’episcopato in Bolivia, paese in cui il dialogo di papa Francesco con Evo Morales sembra ormai un lontano ricordo dopo la sua traumatica destituzione. Il successore, infatti, il presidente Luis Arce, ha mandato in tribunale le gerarchie cattoliche, da mons. Ricardo Centellas a mons. Aurelio Pesoa, che negli anni si sono impegnate nei trattati di pace sul modello colombiano.
In America Latina, poi, anche la macchina diplomatica si è inceppata ben prima dell’invasione russa in Ucraina, con gli sforzi del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin rivelatisi un sonoro buco nell’acqua.
Il papa peronista
In dieci anni, papa Francesco non è mai andato nella sua Argentina, malgrado le sue promesse. In questo tempo, Bergoglio è stato percepito da molti come il silenzioso convitato di pietra nella Casa Rosada, per aver sostenuto il suo attuale inquilino Alberto Fernández – secondo le rivelazioni del Financial Time – e aver mostrato insofferenza verso le politiche pro-choice del suo precedessore, Mauricio Macri.
Proprio per questo, i più critici ammettono che in un viaggio ipotetico in Argentina, papa Francesco verrebbe accolto tutt’altro che calorosamente, come già accaduto in Cile. Dieci anni dopo la partenza di Bergoglio da Buenos Aires, i suoi interventi a gamba tesa nella politica argentina alimentano ancora la cosiddetta «grieta», cioè il divario fra le anime peronista e antiperonista del paese.
Di recente, è stato lui stesso a dover smentire chi gli dà del peronista, nel libro intervista El Pastor: «Non sono mai stato affiliato al partito peronista, non ero nemmeno un militante o sostenitore del peronismo. È una bugia».
Eppure, come già accaduto ai tempi in cui era cardinale, non ha mancato di rivalutare la seconda presidenza di Juan Domingo Perón, interrotta da un golpe, come un’età dell’oro per il suo paese, quando «il livello di povertà era del 5 per cento». Dichiarazioni che hanno suscitato malumori nel governo, costretto a smentire le sue affermazioni per spegnere il crescente malcontento sociale dovuto all’inasprimento dell’inflazione.
La rottura in Cile
È difficile rintracciare il punto di rottura del rapporto tra papa Francesco e l’America Latina. Sicuramente, il suo viaggio apostolico in Cile nel 2018 segna la fine della legittimazione del ruolo politico del pontefice come difensore del «pueblo».
Nel paese funestato dagli abusi sessuali del clero cileno, l’arrivo del papa fu anticipato dal lancio di tre bombe contro la chiesa di Nostra Signora delle Americhe a Conchalí e dai cori dei fedeli che non perdonarono a Francesco di aver preso le difese di mons. Juan Barros, definendolo bersaglio di «calunnie» dopo le prime accuse di insabbiamento di casi pedofili.
Solo dopo papa Francesco ha ammesso la sua improvvida uscita, facendo mea culpa, dopo che Barros fu dimostrato colpevole di aver occultato diversi casi di pedofilia e nascosto le violenze di padre Fernando Karadima, condannato già nel 2011 dalla Congregazione per la dottrina della fede. Non è neppure bastata la destituzione in massa del clero cileno da Roma per sanare una ferita ancora aperta, come dichiara sottovoce una fonte vaticana bene informata.
Aparecida e i burocrati
Ma se è vero che, come disse il sacerdote Guillermo Marcó, già responsabile dell’ufficio stampa dell’arcidiocesi di Buenos Aires, «interpretare il Papa senza una chiave religiosa è come mutilarlo», è sul piano religioso che molti dentro la chiesa latinoamericana accusano il papa argentino di una presa di distanza dal suo ruolo teologico.
È il secondo paradosso di Francesco, esaltato anzitempo dai suoi amici giornalisti come colui che ha forgiato il pontificato durante i lavori per redigere il noto documento di Aparecida, poiché è nel santuario brasiliano che l’allora cardinale Bergoglio enunciò la visione di una chiesa rivolta ai poveri come «riserva morale che guarda ai valori dell’umanesimo autentico che si manifesta nella solidarietà, reciprocità, partecipazione, offrendo spazi reali per la vita comunitaria» e ostile a una «cultura ha come orizzonte una visione individualista e un desiderio consumistico che è dominato da un forte interesse economico».
In questi dieci anni, l’esperienza spirituale delle conferenze generali dell’episcopato latinoamericano iniziate con Rio de Janeiro nel 1955 sono arrivate a un punto morto e il fermento di Aparecida è stato convogliato in summit online e istituzionalizzato nelle due macchine burocratiche dell’episcopato, il Celam (Consiglio episcopale latinoamericano) e il Sedac (Segretariato episcopale dell’America centrale e Panama – che raggruppa i vescovi dei Paesi dell’America centrale continentale).
Della vocazione unitaria della «Patria Grande» panamericana non c’è traccia, malgrado la presenza di uomini latini nella cerchia romana di Bergoglio: dal cardinale Claudio Hummes, scomparso la scorsa estate, a quello di Aparecida, Raymundo Damasceno Assis e al cileno Francisco Javier Errázuriz Ossa, oggi arcivescovo emerito di Santiago del Cile, annoverato nel primo C8, il gruppo di cardinali scelti dal papa per il governo della chiesa, fino all’honduregno Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, arcivescovo emerito di Tegucigalpa.
Vale la pena leggere lo storico Ernst Kantorowicz, quando ne I due corpi del re scrive: «Il misticismo politico è esposto al pericolo di perdere il suo fascino e diventare completamente privo di senso, una volta tolto dal proprio contesto originale, dal proprio tempo e luogo».
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