Mosca come Parigi. L’attacco è a uno stile di vita “haram”, inaccettabile agli occhi del fondamentalismo islamico. E così i belligeranti del fronte ucraino riscoprono di avere un nemico in comune: il terrorismo
Piaccia o non piaccia a Vladimir Putin, agli occhi del jihadismo anche la Russia è occidente. Ortodossia o cattolicesimo non fa differenza per chi ha l’orizzonte di costruire la Umma, la comunità di tutti i credenti. Il Crocus City Hall è il Bataclan, comune denominatore il rock tanto inviso ai soldati di Allah che lo avevano vietato quando avevano conquistato uno stato a cavallo tra Iraq e Siria per fortuna velocemente espugnato. A Parigi agirono cittadini europei fanatizzati, a Mosca combattenti venuti dal ventre molle dell’Asia, le Repubbliche ex sovietiche a forte connotazione islamista: nemici interni o quasi.
Lo zar tenta un’ardita connessione tra un atavico problema con il mondo musulmano e la guerra in Ucraina alludendo a una qualche responsabilità di Kiev nell’aprire un varco ai terroristi, un evidente pretesto per distogliere l’attenzione da colpe che potrebbero ricadere su di lui dopo il trionfo elettorale favorito anche dalle promesse di sicurezza. Zelensky è il capro espiatorio a cui addossare ogni nefandezza ed emendarsi dall’accusa di fallimento per non aver saputo proteggere la capitale da attacchi endemici provenienti sempre dallo stesso avversario. È il tormento ininterrotto da quando esercita il potere, agli inizi nel 1999 furono i palazzi di periferia della capitale distrutti con la dinamite, 239 morti, paternità attribuita ai ribelli ceceni e daghestani.
«Li inseguiremo fin dentro i cessi», promise allora Putin. Seguì il teatro Dubrovka, la scuola di Beslan, altre carneficine minori. Anche per questo decise di partecipare al conflitto in Siria per distruggere lo Stato islamico, in un’alleanza di fatto con l’occidente favorita dalla condivisione degli interessi: le file dell’esercito dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi contavano in gran numero miliziani provenienti dalla periferia del suo impero.
Sconfitti ma non annientati in Medio Oriente, i mujahiddin si sono dispersi trovando covi sicuri in Afghanistan, rifondandosi nello Stato islamico-Khorasan (significa terra del sole) forte di duemila effettivi, e individuando come bersagli principali, anche per una questione di prossimità, l’Iran sciita degli ayatollah e la Russia dello zar.
Un Vladimir Putin, convinto che lo spazio vitale russo fosse verso ovest e il pericolo arrivasse da fantomatici “nazisti” insediati a Kiev sul punto di allearsi con la Nato, ha mosso guerra all’Ucraina, dimenticandosi il turbolento fronte sudorientale. Una disattenzione fatale. È vero che il terrorismo per sua natura può colpire ovunque, anche nel fortino più munito (e la prova è l’11 settembre americano), ma è altrettanto vero che si insinua più facilmente quando gli si presenta l’occasione, quando può.
Avere concentrato gli sforzi sull’Ucraina, avere sottovalutato gli allarmi lanciati dal servizi segreti americani proprio perché avversari su quello scacchiere e dunque dal suo punto di vista “inaffidabili”, ha sicuramente nuociuto al suo apparato di difesa favorendo la carneficina di venerdì. E rimettendo ai primi posti dell’agenda internazionale il tema che sembrava archiviato dello stragismo jihadista.
In un mondo scosso da troppe crisi le alleanze sono a geometria variabile in mancanza di un ordine costituito e riconosciuto. Così, se oggi è Mosca a piangere i suoi morti, il monito arriva forte e chiaro anche nelle cancellerie europee, a ricordare che il terrorismo islamista continua ad essere una minaccia comune e nessuno è al riparo. In qualche modo riavvicina la Russia all’occidente e lo dimostra la condanna unanime dell’eccidio del Crocus City Hall e la solidarietà alla Russia arrivata anche da tutti i governi che da due anni sostengono lo sforzo ucraino per resistere all’invasione.
Le ferite dell’Ucraina hanno impedito di arrivare al punto di proclamare «siamo tutti russi», come fummo «tutti francesi», «tutti belgi», «tutti inglesi», «tutti spagnoli» o «tutti americani» per percorrere il rosario dei troppi lutti del recente passato prodotti dai jihadisti. Tuttavia dovremmo riflettere sul fatto che, nell’immaginario di chi vuole ricostruire il califfato, siamo uguali di fronte al loro desiderio di sterminio.
Miscredenti e seguaci di un altro dio, con un diverso ruolo della donna nella società, con un simile humus culturale, con uno stile di vita non poi così dissimile e senz’altro haram, inaccettabile, nella visione dell’integralismo islamico. Peccato che quanto ci unisce, e non è poco, non sia stato sufficiente a evitare una guerra in nome di quanto ci divide: le mire imperiali di Putin, il rifiuto della democrazia liberale bollata come obsoleta.
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