La risoluzione per il cessate il fuoco segna una «linea rossa» per l'ostinazione di Netanyahu. Se Israele fermerà la guerra avrà evitato la trappola dell'isolamento internazionale e dell'escalation regionale. La strategia degli Usa mira a creare le condizioni per riprendere il percorso degli Accordi di Abramo, disinnescando così anche le minacce dell'Iran e di un nuovo jihadismo globale
L’uccisione in un raid nella Striscia di Gaza dei 7 operatori umanitari di World Central Kitchen, il bombardamento all’ospedale Al Shifa, dove sono state sventrate le camere operatorie, come anche l’attacco al consolato iraniano di Damasco hanno ormai evidenziato come la cieca ostinazione di Netanyahu non prenda in alcuna considerazione le gravi conseguenze che potrebbe subire a breve lo stesso popolo israeliano: l’uccisione degli ostaggi da parte di Hamas, l’escalation del conflitto regionale e il definitivo isolamento sul piano internazionale di Israele.
Sugli scenari del conflitto è intervenuta la risoluzione S/RES/2728 (2024) adottata il 25 marzo scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, con la sola astensione degli Stati Uniti. È stato il primo segnale forte del superamento della «linea rossa» di Israele sulle azioni belliche intraprese a Gaza dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre.
Gli Stati Uniti si sono astenuti spiegando di non essersi uniti al parere favorevole perché nel testo manca un’esplicita condanna di Hamas per gli attacchi del 7 ottobre. Sulla chiara presa di distanza dall’attuale linea del governo Netanyahu, gli Usa hanno cercato di attenuarne gli effetti provando a far passare la linea che non si trattasse di una risoluzione vincolante.
È vero che nella formulazione adottata dalla risoluzione per il cessate il fuoco non si usa il verbo “decidere” (decide in inglese), che di norma è quello usato dal Consiglio per rimarcare la valenza assertiva, mentre adopera il verbo “esigere, richiedere” (demands), ma ciò tuttavia non significa che un inadempimento rimanga privo di conseguenze e non esponga uno Stato a responsabilità da illecito internazionale, specie se concerne l’uso della forza non avallato dalle Nazioni unite.
Nel caso specifico, nel testo della risoluzione infatti non si fa cenno a una modalità di definizione di una controversia prevista dal capitolo VI né si adopera il termine “raccomanda”, ma piuttosto si dà una chiara indicazione a Israele per il cessare il fuoco e garantire l’assistenza umanitaria alla popolazione.
D’altro canto anche le interpretazioni più recenti si soffermano sul valore in generale vincolante delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza nei termini del capitolo V articolo 25 della Carta: «I membri delle Nazioni unite convengono di accettare e di eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza in conformità alle disposizioni della presente Carta».
In sostanza, anche per le mere “raccomandazioni” potrebbe dunque sussistere un obbligo generale di adoperarsi per ottemperare a decisioni assunte dalla comunità internazionale.
Immediato, duraturo, sostenibile
Sono numerose le risoluzioni che dal 1967 richiedono al governo israeliano di ritirare dai territori palestinesi gli insediamenti illegali dei coloni, mentre Israele ha continuato a consentirne l’estensione in Cisgiordania.
Il problema della risoluzione 2728 sarà dunque ancora come assicurare l’effettività delle misure che in essa sono previste. Si tratta fondamentalmente di quattro condizioni: 1) il cessate il fuoco «immediato per il mese del Ramadan», che porti anche a «un cessate il fuoco duraturo e sostenibile»; 2) il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli ostaggi; 3) l’accesso umanitario; 4) il rispetto delle parti degli obblighi di diritto internazionale per le persone detenute (il riferimento non è solo per gli ostaggi di Hamas, ma anche per i palestinesi reclusi nelle prigioni israeliane).
La disposizione sul cessate il fuoco chiama in causa direttamente il premier israeliano Benjamin Netanyahu, per la scelta di non fermare la guerra e di sferrare ora l’attacco decisivo a Rafah, la città più meridionale della Striscia.
Il Centro regionale di informazione delle Nazioni unite a commento dell’adozione della risoluzione riporta un inesorabile confronto: da un lato c’è l’ attacco disumano dei tagliagole di Hamas che hanno provocato il massacro di 1.200 morti (accompagnato da indicibili violenze su donne e bambini) e catturato 240 ostaggi; dall’altro ci sono i bombardamenti di Israele che nel mirare ai terroristi confusi tra la popolazione civile hanno inevitabilmente causato la morte di 32.000 palestinesi (secondo i dati forniti dal ministero della Sanità locale, contestati dagli israeliani).
La «linea rossa»
Sul punto vale ricordare le posizioni iniziali dell’occidente che hanno sostenuto Israele considerata l’estrema efferatezza dell’attacco del 7 ottobre e la cattura di ostaggi civili da parte dei terroristi di Hamas.
Questi certamente hanno anche la responsabilità di nascondersi negli edifici e tra la stessa popolazione civile, condizione che non consente a Israele di compiere azioni mirate: in base ai principi delle Convenzioni di Ginevra anche ai “guerriglieri” è imposto l’obbligo di distinguersi dalla popolazione civile e di non utilizzare edifici civili a scopi militari. Per gli israeliani invece le responsabilità davanti alla Corte penale internazionale – come rilevato dallo stesso procuratore della Corte Karim Khan in uno statement – potrebbero riguardare l’eccesso nell’uso della forza bellica e l’esodo forzato della popolazione civile.
In ogni caso, la reazione di Israele ha assunto una dimensione tale di violenza che ha indotto non solo il mondo arabo, ma gli stessi paesi amici occidentali – sollecitati da numerose proteste, specie nelle università – a riconsiderare l’appoggio iniziale. Biden è stato netto nei confronti di Netanyahu nel ribadire la necessità di evitare un precipizio nell’isolamento internazionale, e di fronte all’ennesima ritrosia del premier israeliano non ha esitato a porre un punto fermo con l’adozione della risoluzione per il cessate il fuoco.
Operazione di polizia
Dopo la decisione americana sulla risoluzione, Netanyahu ha inizialmente bloccato la delegazione israeliana che a Washington avrebbe dovuto discutere un piano alternativo di attacco alla città di Rafah. L’iniziativa sembra essere stata poi ripresa: è questo il percorso da compiere perché con la pressione americana l’operazione di guerra si trasformi in una operazione di intelligence e di polizia antiterrorismo, orientata a obiettivi mirati, preservando la sicurezza della popolazione civile.
L’elemento più critico della questione sarà rappresentato in ogni caso dall’altra misura posta dalla risoluzione delle Nazioni unite, che non è affatto secondaria: la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas. Sarebbero ancora 130 gli israeliani tenuti in ostaggio dai terroristi, e non si sa quanti ancora siano in vita. Hamas non è espressamente citata nella risoluzione 2728, e questo si spiega per la volontà condivisa dai membri del Consiglio di sicurezza di non attribuire alcuna forma di legittimazione o riconoscimento anche indiretto a una entità che rimane un gruppo terrorista. Su questo profilo il premier israeliano potrebbe tornare a rivendicare la sua determinazione qualora Hamas frapponga ulteriori ostacoli alla liberazione degli ostaggi. Importante pertanto sarà il ruolo che potranno ora assicurare i vari attori internazionali come Qatar, Egitto e Turchia, che sembrano poter avere voce in capitolo nelle mediazioni con la leadership di Hamas.
Tutt’altra prospettiva riguarderà il futuro dell’organizzazione che potrebbe vedere un suo eclissamento forse definitivo, con un lungo esilio dei capi, che saranno comunque esposti a possibili ritorsioni degli israeliani.
Più in generale, il disegno di realizzare la soluzione “Due popoli, due Stati” voluta dalla comunità internazionale è ancora lontano, tanto che si parla di un controllo prolungato israeliano su Gaza e Cisgiordania, mentre risulta al momento problematica anche una Autorità palestinese riformata e affidata alle garanzie di alcuni Stati del mondo arabo e/o di una forza multinazionale anche occidentale, chiamata a predisporre “aree-cuscinetto” e di sicurezza.
Su queste prospettive vale comunque per ora l’auspicio che Israele possa far prevalere la scelta umanitaria, perché segnerebbe questa davvero una vittoria di lungo termine, una vincita del bene sul male, per tornare a proporsi tra le democrazie con il senso più autentico del vissuto del popolo ebraico: non dimenticare la storia delle proprie sofferenze e adoperarsi perché non si ripetano per gli altri popoli.
Se i prossimi giorni porteranno Israele a fermare la guerra, il destino potrebbe cambiare decisamente in meglio per i palestinesi, ma soprattutto per Israele stesso: avrà evitato la provocazione che Hamas gli ha lanciato per esporlo ancora alla trappola dell’inimicizia nel mondo, dell’isolamento internazionale. Israele dovrà tener conto del monito di Friedrich Nietzsche che si legge in Al di là del bene e del male: «Chi lotta con i mostri deve guardarsi dal non diventare, così facendo, un mostro egli stesso».
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