- I giudici del Cairo hanno rinnovato per altri 45 giorni la custodia cautelare di Patrick Zaki, il ricercatore egiziano arrestato il 7 febbraio 2020 mentre rientrava da Bologna. La decisione è arrivata 24 ore dopo l'udienza.
- Nell'aula non sono stati ammessi né i legali di Zaki, né l'avvocato della delegazione UE e nemmeno il rappresentante dell'ambasciata italiana che regolarmente assiste alle sedute assieme ai delegati di altri paesi.
- Intanto, in Italia, la campagna per la liberazione di Patrick continua a mobilitare attivisti, politici e istituzioni. Secondo Mohammed Hazm, amico di Zaki, «la campagna lo ha protetto dalle torture in carcere».
In Egitto c'è un’espressione che usano tutti: mafysh fayda, significa "non c'è speranza". Chi parla dialetto egiziano lo dice, spesso alzando le braccia al cielo, come intercalare quando si trova davanti a una situazione difficile, impossibile da risolvere.
La speranza per la liberazione di Patrick Zaki non si dovrebbe perdere mai. Eppure, dopo l'ennesimo rinnovo della custodia cautelare di 45 giorni, deciso oggi dalla corte antiterrorismo del Cairo, si fa fatica a tenere accesa la fayda, la speranza, appunto.
La conferma della sua detenzione costringerà lo studente a passare il suo secondo compleanno dietro le sbarre: 30 anni, il prossimo 16 giugno, di cui quasi un anno e mezzo trascorsi da detenuto.
Patrick, infatti è in carcere dal 7 febbraio 2020. Era stato arrestato al suo rientro da Bologna, dove stava frequentando un master in studi di genere. Le accuse, che vanno da "associazione terroristica" ad "attentato alla sicurezza nazionale", si basano su 10 post pubblicati dal presunto account Facebook di Patrick, che gli avvocati del giovane egiziano ritengono falsi ma che non sono mai riusciti a vedere.
Nell'udienza di ieri non sono riusciti neppure a vedere l'aula del tribunale. Non sono stati ammessi, infatti, né i legali, né l'avvocato della delegazione UE e nemmeno il rappresentante dell'ambasciata italiana che regolarmente assiste alle udienze assieme ai delegati di altri paesi.
La campagna italiana
Intanto, in Italia, la campagna per la liberazione di Patrick continua a mobilitare attivisti, politici e istituzioni e a tenere alta l'attenzione sul caso. Ma ancora non sortisce nessun effetto sul destino giudiziario del ricercatore che, prima di finire dietro le sbarre, stava frequentando un master in gender studies all'Università di Bologna.
«La campagna lo ha protetto dalle torture, non è assolutamente una cosa inutile», ribadisce Mohammed Hazm. Parla da Berlino e fa l'ingegnere. È uno degli amici più stretti di Zaki e ha vissuto con lui al Cairo durante gli anni dell'università. Insieme a un altro amico di Patrick, anche lui nella capitale tedesca, è una delle persone più attive per la liberazione dello studente.
«Quello che sta succedendo a Patrick succede a migliaia di egiziani», continua Mohammed. «La custodia cautelare è uno strumento per tenere in carcere attivisti e cittadini comuni a oltranza senza mai condannarli».
Proprio per le sue condizioni detentive, l’asma e il mal di schiena che Patrick lamenta da mesi e il Covid, per il quale non è stato ancora vaccinato, secondo Mohammed la luce su di Patrick non si deve spegnere mai.
«I detenuti prima scompaiono, poi vengono torturati in maniera sistematica nelle carceri egiziane: l'interesse mostrato per Patrick dall'Italia lo sta comunque proteggendo. Dopo il suo arresto, lui è scomparso per un giorno. Ci sono altri cittadini egiziani che sono ricomparsi dopo mesi, altri che non sappiamo ancora dove si trovino», continua.
Mohammed è uno degli amici che hanno visto nascere la passione di Patrick per i diritti umani durante gli anni dell'università al Cairo. Anni in cui l'Egitto, con la rivoluzione del 2011 che destituì Hosni Mubarak, visse una breve ma intensa esperienza di transizione democratica finita rovinosamente nel 2013 con il colpo di stato dell'allora generale Abdel Fattah el-Sisi. Quella fase politica arrivò anche nelle università egiziane negli anni in cui Zaki era ancora uno studente.
La passione per i diritti
«Io e Patrick ci siamo conosciuti alla GUC (German University in Cairo)», ricorda. «Durante la rivoluzione c’era una tenda in piazza Tahrir dove tutti i ragazzi del nostro ateneo si ritrovavano a parlare. Era diventato un rituale incontrarsi lì in quei 18 giorni».
Dopo la rivoluzione, i ragazzi creano un collettivo, i GUC rebels. «Io studiavo ingegneria, Patrick, invece, farmacia. Ricordo ancora la prima volta che l'ho visto, mi aveva colpito la sua indole iperattiva. Non stava mai fermo. Dal 2011 abbiamo iniziato a organizzare delle iniziative insieme, l'idea era quella di portare la rivoluzione nelle università e chiedere un cambio dei vertici dell'ateneo, alcuni dei quali erano vicini all'ex presidente Mubarak».
Il collettivo ha anche ottenuto la creazione del primo sindacato degli studenti della GUC. «Abbiamo manifestato, fatto delle occupazioni e Patrick è sempre stato un punto di riferimento per tutti: lo è stato anche dopo la sua laurea».
È da quella esperienza, fatta di volontariato e attivismo, che è nata la passione di Patrick per i diritti umani che lo ha portato, nel 2017, a iniziare a lavorare con l'Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR) come gender officer.
«L'ultima volta l'ho visto a Berlino. Era venuto a trovarmi qualche mese prima di tornare al Cairo e di essere arrestato. Mi aveva fatto una sorpresa. Aveva suonato il campanello di casa, si era presentato davanti alla porta senza dirmi nulla».
L'ultimo episodio di complicità, poco prima che sul destino del giovane ricercatore calasse il buio.
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