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Grandi manifestazioni di piazza si sono susseguite nel tempo in tutto il mondo. Il fenomeno delle rivolte si è trasformato nel tempo, arrivando fino a oggi, dalle marce di Gandhi al discorso di Martin Luther King, dal Bloody Sunday dell’Irlanda del Nord alle primavere arabe, fino alle odierne in Cina e in Iran.
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Migliaia di persone continuano a scendere in strada invocando maggiori diritti, ma non sempre con i risultati sperati.
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L’articolo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La piazza e il regime”, in edicola e in digitale da venerdì 16 dicembre.
Ieri si preparavano i forconi e le torce, oggi i megafoni, i cartelli e soprattutto lo smartphone. La sostanza, però, spesso non cambia. Nel corso dei secoli si sono susseguite in tutto il mondo grandi proteste di piazza, quelle in cui migliaia e migliaia di persone, in alcuni casi addirittura milioni, scendono per strada in nome di qualcosa.
A volte l’obiettivo è manifestare contro un governo autoritario o un re, invocare la caduta di un’amministrazione oppressiva o di un dittatore. D’altronde era Giuseppe Garibaldi che nel suo Clelia, il governo dei preti sosteneva: «I popoli ben governati e contenti non insorgono. Le insurrezioni, le rivoluzioni, sono la risorsa degli oppressi e degli schiavi, e chi le fa nascere sono i tiranni».
A volte, invece, lo scopo delle manifestazioni è chiedere maggiori diritti, condizioni di vita migliori, libertà o combattere le disuguaglianze sociali. Alcune sono pacifiche e nonviolente, al contrario tante altre sono teatro di scontri e disordini, con sangue, vittime e feriti, ma non sempre con i risultati sperati. Ogni tanto le proteste diventano famose proprio per dei gesti dimostrativi o per la dura repressione a cui vanno incontro.
Senza scomodare i macro eventi accaduti secoli e secoli fa, come la presa della Bastiglia o il Boston Tea party americano, ci sono diverse grandi proteste di massa che hanno caratterizzato la storia del Novecento e i primi anni del nuovo millennio, contribuendo a trasformare la storia o anche il modo di protestare. Il fenomeno delle rivolte si è trasformato nel tempo, arrivando fino a oggi. Le attuali manifestazioni in Cina o la rivolta in Iran, ma anche quelle in Bielorussia e a Hong Kong degli anni scorsi, lo dimostrano.
Le marce di Gandhi
Se c’è nell’immaginario collettivo un personaggio storico che rappresenta la lotta e la protesta politica, quello è Mohandas Karamchand Gandhi. L’avvocato e politico indiano, o Mahatma (“grande anima”), è diventato celebre per la sua disobbedienza civile contro l’oppressione britannica e per le manifestazioni pacifiche che hanno poi contribuito all’indipendenza dell’India.
L’opposizione di Gandhi è fatta, tra le tante cose, di scioperi, dimostrazioni, a cui sono seguiti arresti e incarcerazioni. Nel marzo del 1930, per rispondere all’aumento della tassa sul sale imposto dai britannici, il Mahatma guida un corteo durato settimane lungo un percorso di centinaia di chilometri, da Ahmedabad alle saline di Dandi, diventata poi famosa come “marcia del sale”.
Una manifestazione iniziata con poche decine di compagni e poi allargatasi mano a mano nel tragitto. Alla meta finale, infatti, arrivano in migliaia. Al tentativo pacifico di estrarre il sale dalle miniere, la polizia risponde con la forza, picchiando gli attivisti e arrestando decine di migliaia di persone, tra cui lo stesso Gandhi. Una protesta che tuttavia non trova riscontri immediati, ma è comunque paradigmatica della lotta nonviolenta del Mahatma.
L’America più giusta
Saltando qualche decennio e facendo il giro del mondo, si arriva al 28 agosto del 1963 a Washington. Anche in questo caso si tratta di una marcia pacifica organizzata dagli attivisti afroamericani, nella quale il pastore Martin Luther King pronuncia al Lincoln Memorial il famoso discorso “I have a dream”.
Il sogno delle 250mila persone partecipanti alla manifestazione è raggiungere diritti e libertà lavorative per la popolazione nera degli Stati Uniti, vittima di discriminazioni e vessazioni. Lo stesso pastore protestante sosteneva che «ogni uomo di convinzioni umane deve decidere la protesta che meglio si adatta alle sue convinzioni, ma tutti dobbiamo protestare».
A un anno da quella marcia, gli Stati Uniti varano il “Civil Rights act”. Negli anni successivi ci saranno altre manifestazioni e altri cortei con migliaia di persone, come quelle da Selma a Montgomery in Alabama nel 1965 per chiedere il diritto di voto. Proteste in cui non mancheranno scontri e violenze con le forze dell’ordine.
Il ‘68 in Europa
Tutto il mondo è stato attraversato dai moti del 1968, partendo dagli Usa e dalla mobilitazione dei movimenti contro la guerra in Vietnam della metà degli anni Sessanta. Il fenomeno, mescolandosi alle agitazioni studentesche e operaie, assume in Europa connotati diversi, anche violenti, contro le istituzioni.
In primavera in Francia – nel cosiddetto maggio francese – decine di migliaia di persone sfilano per le strade, organizzano scioperi nelle scuole e nelle fabbriche, atenei e quartieri vengono occupati, mentre i disordini con la polizia vanno avanti per giorni. A giugno, anche con la conferma di Charles de Gaulle nelle elezioni anticipate, le manifestazioni calano di intensità.
Anche l’Italia passa mesi di contestazioni, con le occupazioni di università, gli scontri – tra cui quello di Valle Giulia a Roma – e scioperi del movimento operaio. La scia del ‘68 nella penisola prosegue anche l’anno successivo e sarà poi il prologo di un periodo di tensione, attentati e terrorismo politico che si sviluppa negli anni Settanta, visto che la nascita di diversi gruppi extraparlamentari risale proprio a quei mesi.
La domenica nordirlandese
Una delle proteste divenute famose per la repressione subita dai manifestanti è quella svolta a Derry, in Irlanda del Nord, il 30 gennaio del 1972. Quel giorno un’associazione per i diritti civili (la Northern ireland civil rights association) organizza una marcia nel quartiere Bogside per chiedere maggiori tutele nei confronti della popolazione cattolica e contro l’internamento senza processo che veniva usato contro i nazionalisti.
A partecipare alla marcia sono circa 15mila persone e nonostante il carattere pacifico della manifestazione, l’esercito britannico è presente in forze per evitare che il corteo arrivi nel centro di Derry. Dopo alcuni piccoli disordini con dei gruppi di giovani, il reggimento dei paracadutisti di sua maestà apre il fuoco sopra i dimostranti disarmati.
Risultato: tredici morti sul posto, un 14esimo che muore dopo settimane per le ferite riportate, di cui molti ragazzi. L’immagine del prete mentre sventola un fazzoletto bianco in mezzo al caos e trasporta insieme ad altri un ferito è l’immagine di quella domenica, denominata Bloody Sunday e ricordata come uno degli episodi più cruenti dei Troubles nordirlandesi.
La lotta contro l’apartheid
Anche il continente africano ha vissuto grandi momenti di rivolta. Tra gli eventi più famosi ci sono gli scontri e la rivolta di Soweto, avvenuti a Johannesburg in Sudafrica nel giugno del 1976. È il periodo dell’apartheid, della discriminazione della popolazione nera del paese compiuta dal governo del National party, i nazionalisti afrikaner.
A scatenare l’ondata di proteste è la decisione dell’esecutivo di imporre nelle scuole la lingua afrikaans, alla pari dell’inglese. Un provvedimento inaccettabile per gli studenti e i docenti delle scuole per neri, e poi per tutta la popolazione nera. Il 16 giugno una grande manifestazione pacifica con circa 20mila studenti finisce nel sangue a Soweto, quando la polizia spara sulla folla.
A distanza di tanti anni la cifra esatta dei morti non è mai stata confermata, ma si parla di centinaia di persone uccise tra cui molti adolescenti e il 12enne Hector Pieterson, divenuto simbolo della protesta per la foto che lo ritrae morente. I feriti sono più di mille e la tensione – così come la repressione delle forze dell’ordine – continua anche nei giorni successivi.
Il sindacato di Solidarnosc
Il 1976 è anche un anno in cui le proteste e gli scioperi degli operai coinvolgono la Polonia, in particolare il voivodato della Masovia. Ma grandi manifestazioni già da qualche anno sono organizzate nel paese a causa del ricorrente aumento dei prezzi imposto dal governo comunista di Varsavia. Moti che rafforzano i movimenti di opposizione.
Nel settembre del 1980 viene fondato il movimento sindacale indipendente di Solidarnosc, con gli accordi di Danzica. Un passo importante per il paese dopo che il mese prima – a seguito del licenziamento dell’attivista Anna Walentynowicz dai cantieri navali proprio nella città di Danzica – sono scoppiati scioperi e occupazioni da parte della classe operaia. Solidarnosc è guidato dall’elettricista Lech Walesa, che pochi anni dopo, oltre a conquistare il Nobel per la pace, diventerà presidente del paese.
Gli scioperi sulla costa baltica della Polonia hanno particolare successo: le fabbriche, gli stabilimenti e i porti chiudono, la protesta si diffonde in gran parte della nazione. Dalle istanze dei lavoratori, Solidarnosc ben presto comincia a rivendicare uno spazio politico democratico e anti-comunista, anche con l’appoggio della chiesa cattolica al tempo guidata da papa Giovanni Paolo II. Tanto che il capo di Stato Wojciech Jaruzelski proclama nel 1981 la legge marziale, arrestando diversi esponenti del sindacato e reprimendo nel sangue le proteste.
La rivoluzione cantata
Un altro grande moto di protesta, del tutto pacifico, è quello promosso in Lettonia, Lituania ed Estonia tra il 1987 e il 1991 che porta all’indipendenza delle tre repubbliche baltiche dall’Unione sovietica. Viene chiamata la Rivoluzione cantata perché nei grandi eventi, nei concerti e anche nelle iniziative dei movimenti democratici le basi musicali sono gli inni e le canzoni nazionali vietate dal regime.
L’episodio più caratteristico avviene il 23 agosto 1989 quando la popolazione dei tre paesi scende per le strade, tenendosi per mano e formando una catena umana lunga circa 600 chilometri, da Tallin a Vilnius passando per Riga. Sono circa due milioni di persone che si “legano” e formano quella che sarà chiamata la Via baltica, un numero pari a circa un quarto dell’intera popolazione di Estonia, Lituania e Lettonia. Pochi mesi dopo i tre paesi dichiareranno la propria indipendenza.
La storia di piazza Tienanmen
Oggi quando avvengono rivolte e proteste, le immagini e i video che ritraggono i momenti e i protagonisti abbondano. Anni fa ovviamente non era così e per questo certe foto del passato sono diventate icone. È quello che è successo con lo scatto del 5 giugno 1989 che vede un uomo sconosciuto in piedi sbarrare la strada a una fila di carri armati a piazza Tienanmen a Pechino, in Cina. Una foto, di cui esistono diverse versioni, passata alla storia.
È il giorno dopo il tragico massacro compiuto dall’esercito nei confronti di almeno centinaia se non migliaia di studenti e lavoratori, anche se il numero delle vittime non è sicuro vista la censura di Pechino. In quella piazza si sono radunate centinaia di migliaia di persone per chiedere condizioni di vita migliori, maggiore libertà e riforme economiche.
Un anelito di democrazia iniziato a metà aprile dopo la morte di Hu Yaobang, segretario riformista del partito comunista. Le dimostrazioni proseguono per tutto il mese di maggio, con l’occupazione della piazza e uno sciopero della fame, a cui dopo alcuni tentativi di mediazione il governo cinese risponde con la legge marziale.
Nella notte tra il 3 e il 4 giugno, l’esercito si dirige verso piazza Tienanmen e apre il fuoco sulla folla in maniera indiscriminata con l’obiettivo di sgomberare il posto. La repressione colpisce giovani e lavoratori, continuando nei giorni successivi non solo a Pechino ma anche nel resto del paese.
Le rivoluzioni colorate e l’Euromaidan
Nei primi anni del nuovo millennio a scendere in piazza in diversi paesi dell’ex Unione sovietica sono state le componenti filo europee e filo occidentali della popolazione. Le cosiddette “rivoluzioni colorate” sono cominciate in Georgia nel novembre del 2003, con la “rivolta delle rose”: alle imponenti manifestazioni pacifiche seguono le dimissioni del presidente Eduard Shevardnadze e la salita al potere di Mikheil Saakashvili.
In Ucraina la “rivoluzione arancione” scatta tra il dicembre 2004 e il gennaio 2005, anche in questo caso con caratteri nonviolenti. Migliaia di persone protestano per le strade contro la corruzione e a favore di un avvicinamento all’Europa, ma nonostante l’iniziale salita al governo, Viktor Juscenko non dura molto. In Kirghizistan, nel 2005, ha luogo la “rivoluzione dei tulipani”, in cui – con metodi non sempre pacifici – le manifestazioni della popolazione causano la fuga del presidente Askar Akayev e la vittoria di Kurmanbek Bakiev.
Tra le importanti proteste, a cui inevitabilmente rimanda la guerra in corso oggi, bisogna menzionare anche l’Euromaidan, cioè quelle manifestazioni a favore dell’Europa svoltesi in tutta l’Ucraina tra il 2013 e il 2014, sfociate in scontri aperti tra le centinaia di migliaia di dimostranti e le forze dell’ordine governative.
Il nome viene da piazza Maidan, il luogo di Kiev dove principalmente si concentrano proteste e disordini. Il bollettino finale conta centinaia di morti tra la popolazione civile e migliaia di feriti, soprattutto negli scontri del gennaio e febbraio 2014.
L’onda della primavera araba
Importanti proteste hanno scosso il mondo arabo negli ultimi anni, portando a cambi di regime e a guerre civili infinite. La cosiddetta Primavera araba parte dalla Tunisia, dopo il suicidio dimostrativo del giovane venditore ambulante Mohamed Bouazizi nel dicembre 2010.
La popolazione tunisina dopo la morte di Bouazizi scende in piazza soprattutto nel gennaio del 2011 contro la disoccupazione, l’aumento dei prezzi, la corruzione e la difficile situazione economica in cui versa il paese. I moti portano alle dimissioni del presidente Ben Ali, vista la sua incapacità di gestire le manifestazioni culminate in scontri e violenze.
Dalla Tunisia nelle settimane successive il fenomeno si espande in gran parte del nord Africa e in alcuni paesi del medio oriente, grazie alla mobilitazione delle popolazioni e al massiccio uso dei social network.
In Algeria la gente si schiera contro il presidente Abdelaziz Bouteflika, mentre in Egitto a fine gennaio cominciano le proteste contro Hosni Mubarack. Qui la prima grande manifestazione è quella del 25 gennaio a piazza Tarhir al Cairo con migliaia di persone, ma i disordini prendono piede in tutto il paese. In pochi giorni anche Mubarack è costretto alle dimissioni.
Poi anche la Libia viene interessata dalla primavera araba: manifestazioni e proteste scoppiano a febbraio, mischiandosi a lotte intestine. Dopo l’intervento militare occidentale, le forze di Muhammar Gheddafi sono sconfitte e il rais viene ucciso a ottobre. Da lì in poi il paese sprofonda in una guerra civile e un’instabilità di cui non si vede la fine.
La stessa sorte capitata sia alla Siria, attraversata dalle proteste di inizio 2011 ma il cui regime di Bashar Al Assad tiene, grazie anche ad appoggi esterni, sia allo Yemen, ancora oggi alle prese con una guerra civile atroce. Anche altri paesi arabi sono stati coinvolti nel 2011, come il Bahrein, la Giordania, l’Oman e l’Arabia Saudita, ma con meno effetti.
A distanza di anni e di tempo sono sorti dubbi sui risultati prodotti da questa stagione. Lo stesso tempo che è servito per giudicare complessivamente i grandi episodi della storia e che sarà necessario per valutare le proteste di oggi.
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