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Le restrizioni anti Covid sono state il catalizzatore della più grande ondata di proteste in Cina dalle manifestazioni studentesche del 1989. Ma gli studenti scendono in piazza contro lo strapotere di Xi.
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Le conseguenti riaperture hanno già fatto salire il numero di casi in un paese impreparato. La speranza dei manifestanti è che l’incapacità di gestire la crisi alimenti l’opposizione al presidente.
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L’articolo fa parte del nuovo numero di Scenari: “La piazza e il regime”, in edicola e in digitale da venerdì 16 dicembre.
Diverse persone in tutta la Cina hanno manifestato in queste settimane contro la sempre più impopolare politica zero-Covid del governo dopo l’episodio di un incendio mortale in un appartamento a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, sfidando apertamente il Partito comunista cinese al potere. Si tratta della più grande ondata di proteste dalle manifestazioni studentesche del 1989. Le autorità si danno da fare per rispondere alle proteste, che sono state accompagnate da un’espressione ancora più ampia di sostegno online.
Le proteste sono comuni in Cina, ma non quelle a livello nazionale per una singola causa. Le proteste che chiedono esplicitamente la fine del Pcc sono ancora più rare, specialmente a Pechino, dove lo striscione di una persona che chiedeva le dimissioni del presidente cinese Xi Jinping il mese scorso ha fatto notizia. Ora alcuni manifestanti chiedono apertamente che Xi si faccia da parte, i cartelli in bianco sono diventati un simbolo della resistenza alla censura e i video delle proteste si sono diffusi sui social media.
La maggior parte delle proteste in Cina ha obiettivi specifici locali e si tengono a distanza dalle sfide ideologiche, e le manifestazioni nello Xinjiang immediatamente dopo l’incendio hanno seguito questo schema. Ma le più ampie proteste per la libertà di parola sono diverse: il governo di Pechino le vedrà come una seria minaccia. Ma cosa ha spinto il movimento e come ha fatto a decollare così rapidamente? C’è una qualche possibilità di reale cambiamento in Cina? E cosa succederà ai manifestanti in un paese sempre più repressivo?
L’incendio nello Xinjiang
Il 24 novembre scorso è scoppiato un incendio in un appartamento di Urumqi uccidendo una decina di persone almeno (forse più di quaranta), bambini inclusi. Pare che le vittime fossero per la maggior parte appartenenti alla minoranza musulmana uigura che ha subito una campagna di intensa violenza di stato nello Xinjiang dal 2017.
Lo Xinjiang è stato sottoposto a un rigido lockdown dall’inizio di agosto. Tramite il passaparola e online si sono presto diffuse le accuse secondo cui le misure di prevenzione del Covid-19, comprese barriere fisiche e la chiusura a chiave di porte e scale, abbiano impedito ai vigili del fuoco di raggiungere l’edificio in tempo e ai residenti di evacuare. In una conferenza stampa il giorno successivo all’incendio il capo dei vigili del fuoco ha negato queste affermazioni e ha incolpato le vittime dicendo: «La capacità di salvarsi di alcuni residenti era troppo debole».
Non è ancora chiaro cosa sia successo a Urumqi, ma le misure di controllo del Covid-19 in Cina hanno comportato il blocco e il controllo delle uscite dei condomini. Le misure di sicurezza adottate per sopprimere la popolazione uigura nello Xinjiang avevano un approccio simile per monitorare i movimenti. Lo Xinjiang ha una storia particolarmente tragica di disastri incendiari: nel 1994 un incendio in un teatro a Karamay ha ucciso 325 persone, di cui 288 bambini. I funzionari del Pcc al teatro, tuttavia, avevano insistito per uscire per primi ed erano stati accusati di avere abbandonato la scena.
Tipi di protesta
Le proteste dopo l’incendio di Urumqi possono essere sostanzialmente suddivise in tre gruppi. In primo luogo, nello Xinjiang stesso, la gente è uscita in gran numero il venerdì sera, percorrendo le fredde strade invernali di diverse città. Altri si sono scontrati aggressivamente con la sorveglianza Covid-19 e la polizia, cosa che ha portato all’annuncio secondo cui le autorità avrebbero revocato parzialmente le misure di lockdown nei quartieri a minor rischio, sebbene molte aree rimangano bloccate.
L’incendio ha scatenato anche decine di proteste anti-lockdown in altre parti della Cina, compresi raduni in almeno quattordici città al di fuori dello Xinjiang. Proteste sporadiche contro il lockdown si erano già svolte quest’anno, specialmente a Shanghai, ma queste rappresentano un’ondata più ampia e simultanea. I manifestanti anti-lockdown spesso intraprendono azioni dirette, come abbattere cancelli e barriere. A Wuhan, in parziale lockdown, si è svolto un enorme raduno nel cuore della città.
Tuttavia, i manifestanti più minacciosi per il Pcc sono quelli che sono andati oltre la rabbia nei confronti delle misure zero-Covid per chiedere la libertà di parola e la fine della propaganda del governo, impugnando un foglio bianco come simbolo. Un manifestante a Pechino ha sintetizzato potentemente i sentimenti del movimento: «La nostra gente, nostri connazionali, è morta in un disastro per mano d’uomo, e forse che la cosa abbia fatto notizia? No! Nulla se non menzogne, silenzio, mezze verità», ha gridato il manifestante.
Una delle proteste più notevoli si è svolta il sabato sera dopo l’incendio a Shanghai, simbolicamente nella Urumqi Street. I manifestanti hanno cantato apertamente «Xi Jinping! Dimettiti!» e «Partito comunista! Dimettiti!» prima che la polizia iniziasse con gli arresti. Altre persone si sono radunate il giorno successivo, sempre più ostili nei confronti della polizia. Le autorità hanno rimosso il cartello di Urumqi Street provocando derisioni online. Le segnalazioni di manifestanti arrestati a Shanghai hanno spinto i manifestanti di altre città a chiedere che venissero rilasciati.
Manifestazioni di tali proporzioni e così dirette contro il partito, che hanno coinvolto da singoli partecipanti a centinaia di persone, non hanno precedenti dal 1989. Domenica sera, centinaia di persone si sono radunate lungo il fiume Liangma, nel cuore della ipercontrollata Pechino, chiedendo libertà di parola e di stampa. In più di cinquanta campus universitari ci sono state proteste, tra cui ampi raduni a Pechino nell’università dell’élite Tsinghua e nell’università di Pechino, dove hanno studiato molti di quelli che hanno protestato in piazza Tiananmen nel 1989.
Perché ora?
L’ultimo anno della politica cinese zero-Covid ha diviso gli abitanti delle città. Nel 2021 per la maggior parte delle persone questa politica era ancora un successo nazionale, rispetto al resto del mondo, ancora soggetto a focolai e restrizioni persistenti. La situazione è cambiata rapidamente, soprattutto dopo il lockdown di due mesi a Shanghai di quest’anno. Con la variante omicron altri governi con politiche zero-Covid, come Corea del Sud, Taiwan e Nuova Zelanda, si sono mossi per gestire i focolai grazie alla preparazione e ai vaccini. La politica della Cina non sembra prevedere una fine.
L’incendio di Urumqi è montato sulla crescente rabbia per la persistenza delle misure zero-Covid. Le speranze che una politica allentata seguisse il Congresso del partito in ottobre sono state deluse dai più grandi focolai mai registrati in Cina. Gran parte del paese è in lockdown almeno parziale, con ristoranti spesso chiusi e restrizioni negli spazi pubblici. Negli ultimi mesi ci sono state numerose proteste minori ed episodi virali di sofferenza da lockdown. Le immagini di folle senza mascherine ai mondiali di calcio hanno anche attirato nuova attenzione sulle riaperture nel resto del mondo.
Da quando Xi ha preso il potere, ha intrapreso un assalto continuo alle libertà relative a cui il pubblico cinese si è abituato dall’inizio degli anni Duemila. La politica zero-Covid ha solo intensificato la sensazione di essere tagliati fuori dal mondo. Le repressioni di Hong Kong e l’effettiva nomina di Xi a presidente a vita quest’anno hanno spazzato via ogni speranza che il sistema potesse evolvere verso maggiori libertà.
Anche se i manifestanti non hanno parlato direttamente dei campi di concentramento o delle altre misure anti-uigure, il fatto che l’incendio sia scoppiato nello Xinjiang aggiunge un ulteriore motivazione ai manifestanti a causa dei crimini contro l’umanità commessi del governo cinese in quella regione. La condanna del governo americano, delle Nazioni unite e di altri gruppi e governi che hanno denunciato le atrocità ha paradossalmente reso l’opinione pubblica cinese più consapevole di quello che è accaduto nello Xinjiang.
La risposta del governo
La polizia inizialmente sembrava non sapere come gestire le proteste, ma rapidamente si è orientata nel disperdere la folla e arrestare diffusamente. L’approccio varia ancora da città a città, ma queste misure di repressione sembrava stessero riducendo seriamente le proteste.
È probabile che seguirà un’ondata di arresti mirati mentre la polizia utilizza la rete di sorveglianza cinese per identificare i singoli manifestanti. Se le proteste continueranno è probabile che la risposta sarà pesante, che saranno dispiegate le forze della polizia armata popolare, forze paramilitari cinesi, che hanno represso le proteste nello Xinjiang e in Tibet con una certa violenza.
Tuttavia una repressione punitiva potrebbe provocare ulteriori proteste altrove, così come altre misure come l’espulsione o la punizione degli studenti. Sembra che parecchi manifestanti siano giovani benestanti che vivono nelle metropoli; la loro persecuzione sarà più visibile di molte vittime dell’oppressione del governo cinese. È anche possibile che in alcune aree il governo abbia raggiunto il limite delle sue capacità repressive: il mantenimento dello zero-Covid ha richiesto investimenti sempre più ingenti di personale e denaro da parte del governo.
I media statali cinesi hanno finora semplicemente evitato di seguire le proteste. L’attuale linea della polizia sul campo e dei nazionalisti online ripete il cliché delle cosiddette forze straniere che orchestrano le proteste. Se i video delle proteste dovessero continuare a diffondersi online, i principali servizi Internet cinesi potrebbero limitare del tutto la possibilità di caricare video. In casi estremi, il governo potrebbe disconnettere Internet per la maggior parte delle persone, come ha fatto nello Xinjiang nel 2009, o interrompere le connessioni mobili per impedire ai manifestanti di coordinare i movimenti in strada.
La leadership cinese potrebbe interpretare queste proteste non come un segno di fallimento politico, ma come un segno che le misure di controllo ideologico non sono state abbastanza efficaci, provocando così un’ondata di maggiore censura. Questo è anche un serio esame del governo personalistico di Xi; se le proteste continuano o ripartono, potrebbero galvanizzare chi non è contento della sua leadership e forse anche portare a un tentativo di rovesciarlo dall’interno.
Politica zero-Covid
I governi locali si sono impegnati in una revoca simbolica delle misure di lockdown per tentare di placare i manifestanti, come è già accaduto nello Xinjiang. Ma è molto improbabile che la politica zero-Covid finisca presto. Il sistema sanitario cinese semplicemente non è preparato: ha una grave carenza di posti letto negli ospedali, i vaccini hanno prestazioni inferiori ai vaccini a mRNA e i tassi di vaccinazione tra le persone di età pari o superiore a sessant’anni sono inadeguati e per gli ultraottantenni sono terribili. (La stessa propaganda anti-occidentale della Cina ha reso difficile l’adozione di vaccini mRNA.) Qualsiasi seria riapertura rischia di provocare centinaia di migliaia di morti e di compromettere gravemente il sistema sanitario.
Il governo stesso poi si è impegnato in questa politica e l’ha collegata al controllo personale di Xi. Per le autorità locali qualsiasi decisione è sbagliata: la riapertura rischia di aumentare il numero di casi e la colpa dei loro capi, mentre con le chiusure si rischia il disastro economico e la rabbia pubblica. In assenza di una chiara nuova direzione dall’alto, continueranno con lo status quo.
L’articolo è apparso su Foreign Policy. Traduzione a cura di Monica Fava.
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