Il massacro compiuto a Mosca ha indignato anche l’occidente, che è tornato alla memoria del Bataclan: i terroristi della strage alla Crocus City Hall, luogo simbolo della Russia modernizzata, hanno ucciso oltre 130 vittime civili, coinvolgendo famiglie inermi con giovani e bambini innocenti.

L’Isis-K, Stato Islamico del Khorasan, ha rivendicato l’attacco contro il «raduno di cristiani russi», ma l’attentato è stato subito posto in relazione con il conflitto in Ucraina. I servizi di sicurezza dell’Fsb hanno tratto in arresto i sospettati dell’atto terroristico e nell’indicare di averli trovati con passaporti tagiki hanno precisato di averli trovati nella regione di Bryansk, prossima al confine ucraino.

Putin ha dichiarato che i terroristi hanno agito «come i nazisti» – come tutti sanno è l’appellativo con cui etichetta Zelensky e gli ucraini che resistono – e che in Ucraina «era pronto un varco» per esfiltrarli. Siamo alle reciproche accuse di false flag: Kiev ha smentito ogni collegamento con l’atto terroristico e denuncia che sia stato orchestrato dal deep state russo per giustificare una reazione estrema contro l’Ucraina; gli Usa confermano l’estraneità degli ucraini e ricordano che la Russia era stata avvertita del rischio di attentati dell’Isis, annuncio al quale i russi avevano replicato imputando agli Usa una forma «ricatto», quasi a ribadire anche stavolta che dietro i movimenti terroristi globali ci sia comunque la mano americana.

La linea che emerge con chiarezza da Mosca è quella di alimentare la tesi che i terroristi abbiano avuto mandanti o appoggi nei servizi ucraini e in quelli occidentali. D’altro canto non è una logica estranea alla Russia, che insieme all’Iran indirizza l’arma del terrorismo del cosiddetto “Asse della Resistenza”, la rete jihadista che dopo i fatti di Gaza si è rivolta contro israeliani e americani e vede uniti Hezbollah libanesi, milizie irachene e siriane, Hamas e Houthi yemeniti.

La realtà

La Russia farebbe meglio invece a concentrarsi sulla minaccia reale dell’Isis-K. I segnali di allerta c’erano tutti: il 3 marzo in Inguscezia sei terroristi dell’Isis-K sono stati uccisi dall’antiterrorismo russo, e già allora si era parlato di un progetto di attentati a Mosca. L’Isis del Khorasan guidato da Sanaullah Ghafari, alias Shahab al-Muhajir, vuole imporsi come attore destabilizzante nei principali teatri di crisi: ha compiuto l’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto 2021 in occasione del ritiro americano dall’Afghanistan concordato con i Talebani, e nel gennaio scorso con la strage di Kerman ha colpito l’Iran sciita in pieno scontro con gli Usa e Israele dopo l’aggressione di Hamas.

Il programma dell’Isis-K è divulgato sulla Voice of Khorasan: la Russia è considerata alla pari degli Stati Uniti nel “mondo infedele”, alleata dei Talebani e del siriano Assad nemici dell’Isis, mentre la guerra in Ucraina è un dono di Allah perché «finalmente non riguarda i musulmani della Cecenia, né dell’Afghanistan né della Siria, ma i residenti delle pacifiche terre d’Europa». L’Isis-K vuole un Califfato che comprenda i territori di Afghanistan, Pakistan e Iran, delle repubbliche ex sovietiche Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, Kazakistan, Kirghizistan e degli stessi spazi russi di Daghestan e Cecenia.

Sullo sfondo c’è il pericolo della radicalizzazione e del malcontento di oltre 25 milioni di musulmani presenti nell’area russa: le province islamiche già protestano contro il largo coinvolgimento nella mobilitazione della «guerra tra cristiani» in Ucraina, e potrebbero reagire contro il centralismo e il razzismo dei moscoviti, che non gradiscono i migranti musulmani. Quest’ultimo aspetto non è sufficientemente esplorato dagli analisti occidentali, mentre le idee fortemente discriminatorie nei confronti delle minoranze di etnie asiatica e di religione islamica sono piuttosto diffuse tra i russi delle aree metropolitane. Lo dimostrano le quotidiane campagne di stampa promosse ad esempio dalla testata ultranazionalista Tsargrad, ispirata alle tesi tradizionaliste del discusso primate cristiano-ortodosso Kirill.

Ecco alcuni passaggi delle diverse “inchieste” sul tema delle migrazioni pubblicate dalla testata: «Le enclave etniche hanno già iniziato ad assorbire le città russe, a cominciare dalle principali metropoli della nazione. Questo fenomeno si accompagna a un aumento dei crimini commessi dai lavoratori ospiti, al loro rifiuto della nostra cultura e all’imposizione dei propri usi e costumi, all’espansione nelle scuole e nell’assistenza sanitaria».

Le analisi si concentrano in particolare sull’incidenza della criminalità tra i migranti: «Nelle nostre indagini abbiamo notato possibili legami tra gli immigrati locali dall’Uzbekistan e il grande business della droga»: E ancora: «Nel 2022 sono stati denunciati 1.844 crimini commessi da lavoratori migranti provenienti dal Kirghizistan (…) il doppio dei delitti compiuti dagli immigrati provenienti dall’Azerbaigian, dall’Armenia o dal Kazakistan».

Risentimento

In sostanza anche nell’anima del “mondo russo” emergono logiche di esclusione su cui può alimentarsi – come accade in Occidente – il risentimento di alcune minoranze: è il substrato sociale su cui possono fare breccia i reclutatori dell’Islamic State, e comunque può maturare l’insofferenza verso la verticale del potere che conduce a Putin.

Sono queste le popolazioni emarginate che potrebbero davvero cominciare a stancarsi nel vedere i loro figli usati come “carne da macello” in una guerra che non comprendono. È probabile che Putin non riesca a intravedere questi scenari che i suoi apparati di sicurezza certamente non hanno il coraggio di prospettargli, perché il capo va assecondato nei suoi sogni di gloria.

Se riterrà di non sottrarre risorse alla guerra in Ucraina è possibile che offrendo qualche contropartita ai Talebani scaglierà la vendetta contro le roccaforti dell’Isis del Khorasan, ma intanto non rinuncerà a strumentalizzare il terrorismo per cospargere altro sangue in Ucraina.

L’occidente delle democrazie farebbe bene a interrogarsi se non sia il caso di rilanciare una intesa anche con il Sud globale per far sì che guerra e terrorismo non aprano a scenari ancora più distruttivi. L’Italia, che ha usato sempre il linguaggio della moderazione e del diritto internazionale, potrebbe cogliere l’occasione della guida del G7 per ridare forza a un ruolo di responsabilità di tutta la comunità internazionale, anche proponendo un’iniziativa più incisiva di confronto sui temi della sicurezza globale davanti all’Assemblea generale delle Nazioni unite.

Si tratta di ripartire da un’idea di fondo, suggerita tra gli altri da Amin Maalouf nel suo ultimo saggio Il labirinto degli smarriti: non è troppo tardi per rilanciare un sistema internazionale in cui «tutta l’umanità possa riconoscersi per prevenire i conflitti e diffondere la prosperità».

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