Nel panorama internazionale alcuni paesi non musulmani si sono distinti per il loro appoggio alla causa palestinese e le loro violente critiche a Israele. Pur con le differenze e i dovuti distinguo, le ragioni della loro postura propalestinese sono spesso da rintracciare nella storia recente di questi paesi e nella loro situazione di politica interna. I tre casi più evidenti sono il Sudafrica, la Spagna e l’Irlanda.

Sudafrica

Israele è stato accusato negli anni di aver costruito un regime di apartheid nei confronti dei palestinesi. Malgrado le differenze – gli arabo-israeliani godono di pieni diritti democratici ma sono spesso discriminati – la lotta palestinese è vista come simile alla lotta di liberazione del Sudafrica dal regime di apartheid sofferto per decenni.

L’African National Congress, partito al governo dal 1994 e originariamente movimento di liberazione, ha sviluppato forti antipatie nei confronti di Israele, che forniva armi e tecnologia al governo sudafricano negli anni dell’apartheid.

Al tempo, il partito di Nelson Mandela ha stretto rapporti con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat e anni dopo anche con Hamas, diventando uno dei pochi paesi al mondo ad avere rapporti diplomatici con l’organizzazione, classificata da gran parte dell’occidente come terrorista.

Si aggiunga che l’atteggiamento sudafricano potrebbe avere anche ragioni di politica interna. L’attuale presidente Cyril Ramaphosa e il governo del Paese sono molto sotto pressione per via di un’economia stagnante, gli scarsi risultati nella lotta alla corruzione e i frequenti blackout.

In dicembre, il Sudafrica ha presentato una causa contro Israele presso la Corte internazionale di giustizia, accusandolo di genocidio. Di tale visibilità internazionale sembra beneficiare l’Anc, stando agli ultimi sondaggi, malgrado nelle elezioni di quest’anno potrebbe non raggiungere il 50 per cento dei voti per la prima volta.

Spagna

Il governo di Pedro Sánchez si è posizionato all’indomani del 7 ottobre come la voce più forte, tra i grandi paesi europei, nel condannare Israele per le sue operazioni militari a Gaza. Il premier spagnolo ha dichiarato che il primo impegno in politica estera del suo governo, è di «lavorare in Europa e in Spagna per il riconoscimento di uno Stato palestinese».

Lo stesso sta facendo Josep Borrell, Alto rappresentante per la politica estera Ue, che non ha mai lesinato pesanti critiche all’operato israeliano a Gaza. In un’intervista al quotidiano spagnolo El País, Borrell ha detto che la Spagna è un paese «con una chiara simpatia per il mondo arabo».

Sánchez è stato anche tra i primi leader occidentali a mettere in dubbio che Israele stia rispettando il diritto umanitario, date le ingenti vittime civili a Gaza, definendo la situazione nella Striscia «inaccettabile».

La Spagna ha condannato il massacro del 7 ottobre a opera di Hamas. Tuttavia, la posizione spagnola è esplicitamente a favore della causa palestinese, come testimoniato anche da numerose manifestazioni di appoggio nel Paese.

Ragioni storiche spiegano, a parere di molti, la postura spagnola. Geograficamente vicina alla regione del Maghreb, la Spagna ha vissuto decenni di isolamento sotto il regime di Francisco Franco fino al 1975, anno di morte del dittatore.

In questo periodo, il paese si è avvicinato al mondo arabo, mentre ha stabilito relazioni ufficiali con Israele solo nel 1986 e come condizione all’entrata del paese nell’Unione europea. Israele ha osteggiato a lungo l’ingresso della Spagna nelle Nazioni unite a causa della vicinanza del regime franchista alla Germania hitleriana.

Molti spagnoli, per via dell’esperienza franchista, si sentono vicini ai palestinesi percepiti come popolo che sperimenta un’oppressione simile a quella del loro passato recente.

Si aggiunga che Sánchez ora governa con una eterogenea maggioranza fragile. Il suo alleato principale è il gruppo di movimenti di estrema sinistra Sumar, che è saldamente pro Palestina. In novembre, la ministra di Podemos Ione Belarra ha accusato Israele di mettere in atto un «genocidio pianificato» nei confronti dei palestinesi.

Irlanda

All’interno dell’Unione europea, l’Irlanda è l’altro paese che ha esplicitamente condannato Israele. Il premier Leo Varadkar ha parlato di «vendetta» da parte israeliana, il ministro degli Esteri Micheál Martin ha definito la reazione israeliana come «sproporzionata», mentre deputati dell’opposizione hanno accusato Israele di omicidi di massa.

Alcuni di loro si sono presentati in parlamento indossando la keffiah palestinese e hanno chiesto, senza ottenerlo, che l’Irlanda deferisse Israele alla Corte internazionale di giustizia per crimini di guerra. Centinaia di insegnanti universitari hanno firmato petizioni chiedendo di interrompere i rapporti con le università israeliane.

Per tutta risposta, il ministro israeliano Amihai Eliyahu del partito di estrema destra Fronte nazionale ebraico, ha invitato i palestinesi «ad andarsene in Irlanda o nel deserto». Le cause per tali reazioni da parte irlandese sono da rintracciare nella psiche nazionale.

Gli irlandesi pensano di essere stati delle vittime per secoli e tendono a prendere le difese degli underdog, sottolineano vari storici ed esperti. La simpatia istintiva per i palestinesi è anche dovuta al fatto che quel popolo è stato sottoposto al dominio dell’impero britannico, avendo gli inglesi governato per mandato della Società delle nazioni zone della Palestina storica all’inizio del secolo scorso fino alla creazione di Israele.

L’esperienza di essere stati la più antica colonia inglese avvicina l’Irlanda anche per queste ragioni alla causa palestinese. Inizialmente, però, l’atteggiamento irlandese era stato di segno opposto. L’impulso a simpatizzare con gli underdog aveva portato gli irlandesi ad appoggiare il movimento sionista per la creazione di uno Stato ebraico.

L’occupazione israeliana della Cisgiordania nel 1967 e l’invasione del Libano nel 1982 hanno spostato completamente le posizioni di Dublino.

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