Dopo la confisca un magazzino utilizzato per lo spaccio è stato affidato nel 2010 alla cooperativa Pietra di scarto che attraverso un’agricoltura sostenibile, praticata anche da ragazzi inseriti in percorsi di lavoro durante la loro detenzione in carcere, genera prodotti alimentari di alta qualità
In mezzo alla campagna sulla strada statale tra Foggia e Cerignola fino a qualche anno fa lo sguardo dei passanti veniva attirato da un piccolo ecomostro di cemento grigio. Veniva usato da alcune famiglie legate alla criminalità organizzata locale come magazzino per lo smercio delle sostanze stupefacenti.
Oggi quello sguardo è attirato da un grande murales e una scritta in cima al tetto “Qui la mafia ha perso”. E ha perso veramente. Dopo la confisca quel bene è stato affidato nel 2010 alla cooperativa Pietra di scarto che attraverso un’agricoltura sostenibile, praticata anche da ragazzi inseriti in percorsi di lavoro durante la loro detenzione in carcere, genera prodotti alimentari di alta qualità.
Ad accogliere chi entra nell’azienda c’è il presidente Pietro Fragasso. «Abitiamo in un territorio fortemente caratterizzato da fenomeni criminali mafiosi. Ma qui è anche dove nasce il diritto del lavoro, è il territorio che ha dato i natali a Giuseppe Di Vittorio e che ha già dato la possibilità di capire quanto i diritti delle persone passino per le lotte e la possibilità di emanciparsi dall’oppressione. Con le mafie accade la stessa cosa», dice con lo sguardo nascosto dietro un paio di occhiali da vista e con una kefiah bianca e nera al collo.
Ogni anno dall’azienda escono custoditi in barattoli di diverse dimensioni prodotti locali eccellenti come le olive di Cerignola, l’olio di coratina, diverse verdure sottolio, marmellate, passate di pomodoro rosso e di datterini gialli. Ora Fragasso sta cercando di assumere un tecnologo agroalimentare attraverso l’università di Foggia perché ha anche intenzione di aggiungere dei pesti all’inventario. Il motore della cooperativa è un piccolo laboratorio artigianale, qui non ci sono macchinari automatici. È una scelta consapevole, dato che l’obiettivo è creare posti di lavoro e dare un’opportunità economica in un territorio, quello della Capitanata, dove secondo l’Istat il tasso di disoccupazione è al di sopra della media nazionale.
In questo contesto economico è ancora più difficile trovare un lavoro per chi ha una condanna penale alle spalle.
«Vogliamo dimostrare che attraverso la nostra azione, attraverso il lavoro, si possono creare nuove opportunità anche per chi ha condotto una vita diversa», dice Fragasso mentre sistema i macchinari del laboratorio agricolo.
Lavorare la terra
Michele ha 36 anni. È originario di Cerignola e si trova detenuto nel carcere di Foggia da tre anni, gli mancano altre due anni di pena da scontare. Ogni mattina ha il permesso di uscire per andare a lavorare nella cooperativa. «Vengo qui e faccio quello che serve, dalla salsa di pomodoro alla coltivazione di peperoni, zucchine e ortaggi vari. Qua mi sto costruendo un futuro, guadagno anche uno stipendio, un domani quando uscirò se Dio vuole rimango qui a lavorare», racconta seduto a terra con la schiena poggiata a uno degli ulivi del campo. Mentre parla le sue dita giocano con un piccolo ciuffo d’erba: «Ho avuto comportamenti ottimi in galera, sto pagando i miei errori – racconta – A casa ho un bambino di otto anni e grazie alla cooperativa sto ottenendo risultati. È la cosa più bella del mondo».
Michele ricorda bene i primi giorni che ha messo piede nell’azienda agricola: «Erano bellissimi. Prendere aria dopo tre anni di carcere è una sensazione indescrivibile». Con gli occhi socchiusi per il sole e i capelli mossi dal vento parla con orgoglio del figlio. «Un giorno lo porterò qui al campo. Voglio fargli vedere le cose che faccio, cosa cresce da questa terra e come cresciamo noi. Gli farei vedere come si raccolgono le olive, non le cose brutte. Da grandi si devono ricordare come crescono i fiori».
Vincenzo è di una decina d’anni più grande. Ha le mani ruvide, una voce profonda e indossa degli occhiali da sole che coprono il suo timido sguardo. «Qui mi occupo della potatura, piantiamo il pomodoro e lo trasformiamo in salsa. Produrre un qualcosa dalla terra non è semplice, ma vedere pianta crescere è una cosa bella. Il prodotto finale ti dà molta soddisfazione, capisci che riesci a fare qualcosa», dice Vincenzo mentre con le mani prosegue la legatura dei tralci di vite al filo dell’impianto di palificazione. Una pratica che serve a rendere uniforme lo sviluppo dei germogli e rendere equilibrata la produzione dell’uva con cui poi produco il vino a fine stagione.
Tra cinque mesi Vincenzo uscirà dal carcere. «Quando finirò di scontare la pena mi vedo proiettato nel mondo del lavoro ma so anche che non è facile, ci sono difficoltà non solo per me che nella vita ho commesso degli errori. Io l’impegno ce lo metto, poi si vedrà». I prodotti creati dalla fatica di Vincenzo, Michele, Giuseppe e tanti altri che lavorano nella cooperativa sono in vendita anche online sul sito di Altromercato.
Lo scorso Natale Fragasso aveva ideato una confezione di prodotti che aveva chiamato “Il pacco dei banditi”. «Equivale alla nostra stella natalizia. C’è meraviglia maggiore che vedere una vita rinascere attraverso il lavoro in un bene confiscato alla mafia e diventa testimonianza di professionalità, capacità, talento e opportunità?».
La memoria
Tutti i prodotti escono dall’azienda con un’etichetta e il nome di Francesco Marcone. Non è una scelta causale. Marcone era il direttore dell’Ufficio del registro di Foggia ed è stato assassinato a colpi di revolver nell’androne del palazzo di casa sua il 31 marzo del 1995. È stato ucciso perché ha segnalato alla procura una serie di anomalie riguardanti alcuni imprenditori e affaristi locali. Denunce che ha pagato con la sua vita. Ancora oggi, a quasi 30 anni di distanza non c’è una verità giudiziaria sul caso, il processo non ha portato a nessuna condanna né per il killer né per il mandante. Dedicare l’etichetta dei prodotti della cooperativa a Marcone è un gesto simbolico per la comunità locale e serve anche a tramandare una cultura della legalità anche alle scolaresche che visitano la cooperativa.
«Noi non siamo soltanto una realtà che gestisce un bene confiscato. Noi siamo una realtà che ha deciso di fare della memoria una leva decisiva del suo impegno, che si traduce poi nel lavoro di tante persone e nella diffusione di un messaggio che non è soltanto teoria», dice Fragasso.
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