A lavorare in Arabia Saudita sono soprattutto gli stranieri, che entrano nel paese con uno sponsor. Peggio ancora la condizione delle donne, esposte agli abusi psicologici, fisici e sessuali dei “padroni”, pochissimi dei quali riconosciuti e condannati dai tribunali con solo dei risarcimenti esigui
- Il 76 per cento circa della forza lavoro impiegata in Arabia Saudita è composto da lavoratori stranieri. E a parte qualche migliaio di manager, i lavoratori stranieri provengono quasi tutti da India, Bangladesh e Filippine.
- L’Arabia Saudita - anche con operazioni come quella che ha avuto protagonista Renzi - sta provando in ogni modo a rifarsi un look nuovo e riformista.
- Le donne lavoratrici straniere si ritrovano ad avere uno sponsor che ha su di loro infiniti poteri senza avere alcun diritto né come lavoratrici né in quanto individui.
Matteo Renzi invidia il costo del lavoro di quella che ha definito «la culla del rinascimento del nuovo millennio». Ma se nel rinascimento italiano le condizioni dei lavoratori non erano particolarmente allegre, in Arabia Saudita le condizioni della stragrande maggioranza dei lavoratori assomiglia molto allo schiavismo.
Sarebbe bastato aprire la pagina di Wikipedia per evitare una figuraccia come quella dell’ex sindaco di Firenze: «L'Arabia Saudita è uno di quegli stati in cui le corti continuano a imporre punizioni corporali, inclusa l'amputazione delle mani e dei piedi per i ladri e la fustigazione per alcuni crimini come la cattiva condotta sessuale (omosessualità) e l'ubriachezza, lo spaccio o il gioco d'azzardo. Il numero di frustate non è chiaramente previsto dalla legge e varia a discrezione del giudice, da alcune dozzine a parecchie migliaia, inflitte generalmente lungo un periodo di settimane o di mesi. L'Arabia Saudita è anche uno dei paesi in cui si applica la pena di morte, incluse le esecuzioni pubbliche effettuate tramite decapitazione». Un bel rinascimento, non c’è che dire.
I lavoratori stranieri
Il 76 per cento circa della forza lavoro impiegata in Arabia Saudita è composto da lavoratori stranieri. E a parte qualche migliaio di manager strapagati che vivono in complessi residenziali dove non valgono le leggi del paese del Golfo per quanto riguarda i comportamenti personali e il bere alcolici, i lavoratori stranieri provengono quasi tutti da India, Bangladesh e Filippine.
Per loro vale una legge chiamata Kafala, il cui nome deriva dal termine Kafel, che significa sponsor o anche “adottante”, perché la Kafala, in origine, regolava le adozioni. Questa legge funziona così: per entrare in Arabia Saudita o per permanere sul suo territorio, il lavoratore deve legarsi a uno sponsor, che può essere un’agenzia di lavoro, un’impresa o direttamente un cittadino. Padre-padrone, dunque, perché in caso di rottura del contratto il lavoratore viene immediatamente espulso. Solo da qualche mese, e dopo proteste locali sfociate in repressioni sanguinose, arresti arbitrari e proteste internazionali, ai lavoratori è stato concesso di potersi tenere il passaporto che prima veniva invece sequestrato dal datore di lavoro.
Renzi avrà certamente visto le meraviglie della architettura e della tecnologia saudita, ma evidentemente ha chiuso gli occhi davanti alle stamberghe umide in cui sono ammassati - letteralmente, le stanze sono mediamente condivise da sei persone - i lavoratori stranieri, con una temperatura media di 25 gradi, che per oltre sei mesi all’anno supera abbondantemente i 40 gradi raggiungendo punte di 50.
I pochi sauditi che lavorano sono impiegati pubblici o lavorano in ufficio. Gli stranieri, esclusi i manager, devono subire ogni tipo di angheria e di sfruttamento senza poter dire nulla, non solo perché se lo “sponsor” decide di rompere il contratto il lavoratore viene espulso, ma anche perché in Arabia Saudita esistono i tribunali speciali sotto il giudizio dei quali finisce chiunque provi a protestare, immigrati compresi. Il regime presenta i tribunali speciali come strumento per combattere il terrorismo, ma secondo Amnesty International che ha pubblicato il suo più recente rapporto nel 2020, «Il governo saudita sfrutta il tribunale speciale per dare una falsa idea di legalità sull’uso distorto delle norme antiterrorismo per ridurre al silenzio chi lo critica. Ogni fase dei procedimenti di fronte al tribunale speciale è segnata da violazioni dei diritti umani, quali il negato accesso alla difesa, la detenzione senza contatti col mondo esterno e le condanne emesse solo sulla base di ‘confessioni’ estorte con la tortura».
Cambio di look
L’Arabia Saudita – anche con operazioni come quella che ha avuto protagonista Renzi – sta provando in ogni modo a rifarsi un look nuovo e riformista, ma Heba Morayef, direttrice di Amnesty per il Medio Oriente, sostiene che le indagini «sbugiardano la nuova immagine riformista che l’Arabia Saudita sta cercando di promuovere: il governo usa un organo giudiziario come il tribunale speciale per sopprimere spietatamente coloro che hanno il coraggio di esprimere opposizione, difendere i diritti umani o chiedere riforme autentiche». Sono centinaia i difensori dei diritti umani o i critici del regime incarcerati e decine quelli giustiziati dal regime della famiglia di Salman bin Abdulaziz Al Saud, il settimo re dell’Arabia Saudita.
I lavoratori migranti hanno continuato a denunciare abusi e sfruttamento, a volte equivalenti a lavoro forzato. «Il sistema kafala – dice ancora Amnesty nel rapporto – lega i permessi di soggiorno dei lavoratori migranti ai datori di lavoro "sponsorizzanti", il cui consenso scritto è richiesto ai lavoratori per cambiare datore di lavoro o lasciare il paese. Alcuni datori di lavoro confiscano i passaporti, trattengono i salari e costringono i migranti a lavorare contro la loro volontà. L'Arabia Saudita impone anche l'obbligo del visto di uscita, costringendo i lavoratori migranti a ottenere il permesso dal loro datore di lavoro per lasciare il paese. I lavoratori che lasciano il loro datore di lavoro senza il suo consenso possono essere accusati di "fuga" e rischiano la reclusione e l’espulsione».
Il bastone e la carota
Lo scorso ottobre, nell’operazione di imbellettamento portata avanti dalla famiglia saudita, le autorità del paese hanno detto di avere concesso la cittadinanza a oltre 50mila persone e alle loro famiglie e di aver provveduto al rilascio dei documenti d’identità a oltre 800mila persone, che si erano trasferite in Arabia Saudita «in seguito a tumulti di natura politica, economica e sociale nei loro paesi d’origine». I documenti permetterebbero, secondo i sauditi, di lavorare e accedere all’istruzione e all’assistenza sanitaria.
Ma mentre una mano metteva il belletto, l’altra pestava duro. A novembre, il ministro dell’Interno ha annunciato che, nei precedenti due anni, più di quattro milioni di persone sono state arrestate e almeno un altro milione era stato espulso, nell’ambito di una campagna che intendeva colpire i migranti accusati di avere violato le norme e le leggi in materia di permesso di soggiorno, sicurezza delle frontiere e lavoro. Solo nel 2019, sono stati arrestati più di due milioni di lavoratori stranieri e altri 500.000 sono stati espulsi dal paese. Gli 11 milioni di lavoratori migranti residenti in Arabia Saudita hanno comunque continuato a essere sottomessi alla kafala.
Le lavoratrici
Tutto questo riguarda i lavoratori in generale, per le lavoratrici la situazione è decisamente peggiore, com’è peggiore in generale la condizione femminile in Arabia Saudita. Il regime saudita ha infatti una componente politica e una religiosa. Quella politica rappresentata dalla dinastia Al Saud e quella religiosa in mano agli imam wahabiti essendo il wahabismo una derivazione radicalizzata del sunnismo in cui si applica rigidamente la sharia e che in sostanza impone di regolare ogni aspetto della vita civile sulla base del testo letterale del Corano.
Secondo l’interpretazione di un verso del corano che recita «Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono i loro beni», le donne devono essere sottoposte al loro guardiano (il padre e poi il marito) che decide per loro su ogni aspetto pubblico o privato. Così, le donne lavoratrici straniere si ritrovano ad avere uno sponsor che ha su di loro infiniti poteri senza avere alcun diritto né come lavoratrici né in quanto individui.
E sempre secondo l’ultimo rapporto di Amnesty International, le lavoratrici migranti, quasi tutte in teoria collaboratrici domestiche in realtà vere e proprie serve di casa, «hanno dovuto affrontare una serie di abusi aggravati dalle restrizioni di blocco del Covid-19, tra cui il superlavoro, la reclusione forzata, il mancato pagamento dei salari, la privazione alimentare e gli abusi psicologici, fisici e sessuali», pochissimi dei quali riconosciuti e condannati dai tribunali con solo dei risarcimenti esigui. Chiamiamolo risorgimento.
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